La responsabilità penale per i reati commessi attraverso i mass media
Tesi di laurea di Lorenzo Nicolò MEAZZA
Anno accademico 2008-2009
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La responsabilità penale per i reati commessi attraverso i mass media
Primo Capitolo
I REATI A MEZZO STAMPA
Per riuscire a circoscrivere l’area del diritto penale della stampa, è innanzitutto necessario individuare quali fattispecie di reato presentano o possono presentare una connessione più o meno stringente con l’elemento della “stampa”.
Si rileva, in primo luogo, che il reato più comune commesso attraverso la stampa e nel quale questa esercita una connessione più profonda è la diffamazione, al punto da far dubitare in passato la dottrina se la commissione della condotta a mezzo stampa costituisca una semplice aggravante oppure una distinta fattispecie. Dato l’indubbio risalto di tale reato nell’ambito del diritto penale della stampa, esso sarà oggetto di maggior approfondimento, a partire dall’analisi del reato nella sua fattispecie base. Tutto ciò che viene esposto in merito alla diffamazione, infatti, può essere esteso al caso della diffamazione a mezzo stampa, salvo specifiche differenze che verranno trattate analiticamente, come per esempio il momento della consumazione che, nella diffamazione a mezzo stampa, viene spostato nel momento dell’invio o della consegna delle copie d’obbligo alla Prefettura o alla Procura della Repubblica[1].
Oltre alla diffamazione, anche altre fattispecie di reato possono essere realizzati con il mezzo della stampa. Di questi verranno svolti, nell’ultima parte di questo Capitolo, solo alcuni cenni, evidenziando in particolare il rapporto che questi possono avere con l’elemento stampa.
- 1. La diffamazione a mezzo stampa. Analisi del reato
1.1. Il Bene Giuridico
Il codice penale, nel ricomprendere il reato di diffamazione all’interno del Capo II – Dei delitti contro l’onore (Libro II), già dalla rubrica, indica nell’onore il bene giuridico protetto. La dottrina grandemente maggioritaria, infatti, concorda nell’individuare nella reputazione il bene tutelato[2], ma dalla definizione stessa di questo concetto sorgono alcune problematiche di carattere interpretativo. La dottrina ha infatti evidenziato la relatività dell’espressione “reputazione”, intrinsecamente soggetta a variare notevolmente secondo il tempo, i luoghi, le circostanze, lo stato e il grado sociale della persona cui è rivolta. Possono distinguersi così, in merito alla natura relativa dell’onore, due opposti profili: un aspetto positivo, costituito dalla buona reputazione, cioè da quella positiva considerazione che una persona ha acquisito nella dimensione sociale nella quale vive, formata dall’insieme delle caratteristiche personali, professionali, morali e dall’insieme delle capacità, perizie e competenze; un aspetto negativo, costituito dal rispetto sociale minimo di cui ogni uomo è titolare, che si estrinseca nel diritto a pretendere che altri non evochino nei suoi confronti ostilità, disprezzo o antipatia attuosa[3].
Proprio la relatività del concetto di reputazione, ha portato la dottrina a individuare tre differenti posizioni interpretative, divergenti sulla definizione di onore e, pertanto, sul bene giuridico oggetto del delitto di diffamazione: la concezione fattuale o reale e le due teorie personalistiche, la concezione normativa e la concezione costituzionalmente orientata.
Secondo il primo orientamento, vi è una bipartizione del concetto di onore, inteso, da un lato, come onore in senso oggettivo, dall’altro, come onore in senso soggettivo. L’onore inteso nel suo profilo oggettivo è definito come opinione e valutazione dei consociati rispetto alla personalità morale e sociale dell’individuo e quindi come patrimonio morale derivante dall’altrui apprezzamento, ovvero il quantum di considerazione vantata dal soggetto nella collettività, così vietando giudizi o affermazioni che la possano annullare o menomare; il senso soggettivo dell’onore, al contrario, consiste nel sentimento che ciascuno possiede della propria dignità morale e quindi nella somma dei valori che un individuo attribuisce a se stesso, come intimo valore della persona che ne è portatrice[4].
Secondo la concezione normativa, invece, il bene giuridico tutelato è la reputazione intesa in senso personalistico, comprensiva anche del decoro[5]. L’onore, quindi, è rappresentato come valore della personalità, di natura originaria, sempre meritevole di tutela penale a prescindere dall’opinione del soggetto o di terzi o dai meriti o demeriti sociali del soggetto offeso; è quindi inteso quale aspetto proprio della dignità umana e della personalità del singolo in quanto tale. Infine, nell’ambito della teoria personalistica, è emersa una terza posizione, la concezione costituzionalmente orientata, la quale percepisce l’onore come bene personale ed autonomo, che trova il suo fondamento nelle scelte di valore contenute nella Costituzione, in riferimento ai “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità” di cui all’art. 2 Cost., e alla “pari dignità sociale” prevista dall’art. 3 Cost. Ogni uomo, in quanto tale, è quindi inalienabilmente titolare del bene della reputazione.
Diverse sono le conseguenze sul piano teorico dell’accoglimento dei differenti orientamenti. Una delle più dure critiche mosse nei confronti della concezione fattuale o reale, basata su una visione oggettiva dell’onore, è che con il suo accoglimento alcuni soggetti potrebbero essere del tutto privi di onore. Quindi, al fine di ricomprenderli nella tutela penale prevista dal delitto di diffamazione, si è fatto il ricorso al concetto di “onore minimo”, riconosciuto cioè a ogni individuo come persona, indipendentemente da posizione sociale, rango del lavoro e quindi spettante anche a chi è privo di meriti o funzioni (elementi che vanno a contraddistinguere l’onore qualificato)[6]. Esempi classici di offesa a soggetti senza onore in senso oggettivo sono l’epiteto di prostituta rivolto a una meretrice, l’offesa a un soggetto che non ha ancora una considerazione fattuale nel luogo in cui si è da poco trasferito, oppure quella rivolta a un soggetto emarginato dalla società. Accogliendo invece la concezione normativa oppure quella costituzionalmente orientata, non ci sarebbe bisogno di ricorrere al concetto di “onore minimo” per rendere tutelabili anche le offese rivolte a soggetti privi di reputazione; infatti, quest’ultime teorie riferiscono l’offesa unicamente alla dignità personale e alla personalità individuale. Può dirsi quindi che la tutela dell’uomo “nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità” (art. 2 Cost.), nonché le attribuzioni relative allo status sociale o lavorativo, non sono di natura assorbente ed esclusiva, bensì aggiuntiva rispetto a quella riconosciutagli nella sua dimensione individualistica.
Altra divergenza interpretativa, scaturente dall’accoglimento della concezione fattuale oppure della concezione personalistica è quella relativa alla differenziazione tra il delitto di diffamazione e quello di ingiuria. Secondo la concezione fattuale dell’onore, il discrimine tra i due reati si fonda sul differente profilo fenomenico ascrivibile al concetto di onore: l’ingiuria, andrebbe così a tutelare l’onore inteso nel suo senso soggettivo (o soggettivo interiore) come dato della realtà psichica, mentre la diffamazione tutelerebbe l’onore in senso oggettivo (o soggettivo esteriore) come elemento della realtà psico-sociale. Al contrario, sia la concezione normativa sia la concezione costituzionalmente orientata, non accogliendo la bipartizione tra onore oggettivo e soggettivo e sostenendo l’identità di oggetto giuridico tra ingiuria e diffamazione, fondano la distinzione tra i due reati esclusivamente nella presenza (ingiuria) o assenza (diffamazione) della persona offesa, come si evince chiaramente dalla lettera della legge nell’articolo 594 c.p. (“Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente”) e 595 c.p..
Trova conforme parere tra le diverse concezioni, invece, l’assunto secondo il quale l’onore, nel reato di diffamazione, è inteso nel suo senso formale e non in quello reale, permettendo così di punire anche l’attribuzione di un addebito vero, ma disonorante (torna qui utile l’esempio della diffamazione della meretrice)[7].
Contrariamente alla dottrina oggi prevalente, che accoglie la concezione normativa costituzionalmente orientata, la giurisprudenza continua a propendere per la concezione fattuale, ormai adottata come interpretazione consolidata, definendo la reputazione come opinione o stima di cui l’individuo gode in seno alla società per carattere, ingegno, abilità professionale, qualità fisiche o altri attributi personali[8]. Per l’individuazione delle condotte lesive è necessario quindi rifarsi a parametri oggettivi e non soggettivi, riferendosi a ciò che è socialmente esigibile da tutti in un dato momento storico e secondo la comune opinione; ci si riferisce, in sostanza, a una sorta di morale media in costante evoluzione. In merito, tornando sul bene da salvaguardare, la Corte di Cassazione ha affermato che esso è costituito “dalla reputazione dell’uomo, dalla stima diffusa nell’ambiente sociale, dall’opinione che gli altri hanno del suo onore e decoro”[9]. Per la giurisprudenza, quindi la fattispecie di reato non è integrata dalla mera infrazione alla suscettibilità e alla gelosa riservatezza del soggetto passivo[10]. Una recente pronuncia ha poi statuito che, perché sia integrata una lesione dell’altrui reputazione, non è necessaria l’attribuzione di un fatto illecito, cioè contrario a norme giuridiche, ma è sufficiente la diffusione di comportamenti suscettibili di incontrate la riprovazione della communis opinio, sulla base dei canoni etico morali condivisi dalla generalità dei consociati[11].
Altro aspetto interessante è quello relativo alla tutela da riservare al soggetto già disistimato o disonorato; per la giurisprudenza, che si è soffermata sul punto, la reputazione di questo soggetto è rettificabile in melius, ma non sono consentite gratuite aggressioni in peius al suo onore. Per la Cassazione, in particolare, non può ammettersi che la reputazione di un soggetto, al quale siano addebitati eventi considerati disonorevoli, non abbia più diritto alla tutela dell’ordinamento[12]. Può dunque costituire condotta diffamante l’attribuzione a un soggetto, la cui reputazione sia già stata compromessa, di fatti non veri che possano integrare un autonomo reato, in quanto anche la reputazione compromessa in alcuni suoi aspetti può ancora formare oggetto di ulteriori illecite lesioni, essendo rilevante la quantità ovvero la gravità dell’ulteriore lesione in concreto apprezzabile[13]. In definitiva, la giurisprudenza riconosce ormai pacificamente tutela penale in caso di maggior diminuzione di una reputazione che sia stata già di per sé danneggiata[14].
1.2. Il Soggetto Attivo
Il soggetto attivo del delitto di diffamazione, come stabilisce la lettera dell’articolo 595 c.p., è “chiunque”; si tratta per cui di reato comune[15]. Per quanto riguarda in specie la diffamazione a mezzo stampa, il soggetto attivo è senza dubbio costituito dall’autore della pubblicazione dalla quale deriva l’offesa. Il codice penale, però, oltre alla responsabilità dell’autore, prevede l’attribuzione dell’addebito anche in capo ad altri soggetti: il direttore o il vice-direttore responsabile, che omette di esercitare il controllo necessario a impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati (art. 57 c.p.) ed, esclusivamente nel caso di stampa non periodica, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, all’editore, ovvero, se l’editore non è indicato o non è imputabile, allo stampatore (art. 57bis c.p.).
Le posizioni di questi ultimi soggetti saranno approfondite nel Capitolo III, specificatamente dedicato.
1.3. Il Soggetto Passivo
Il delitto di diffamazione, secondo dottrina consolidata, può sussistere unicamente nei confronti di un soggetto determinato nella sua individualità soggettiva, con la conseguenza che il reato non può configurarsi nei casi in cui non è possibile individuare il soggetto destinatario dell’offesa. A tal fine, perché si possa parlare di determinatezza del soggetto, non occorre l’indicazione nominativa del diffamato, ma è necessario che il riferimento a quest’ultimo sia deducibile dalla prospettazione oggettiva dell’offesa[16]. E’ sufficiente che il soggetto passivo sia designato con elementi diretti o indiretti di qualsiasi specie, idonei a identificarlo con ragionevole certezza da parte di chi assiste all’offesa in maniera inequivoca, anche per esclusione o in via deduttiva nell’ambito di una ristretta categoria di persone. Questo risultato può raggiungersi anche per l’esistenza di circostanze o fatti di conoscenza diffusa, che siano attribuibili a un determinato soggetto, mentre, al contrario sono irrilevanti le intuizioni personali o le congetture di chi raggiunge la consapevolezza di essere il destinatario di una generica offesa per proprie conoscenze private, a prescindere quindi dal contenuto offensivo dell’accusa denigratoria[17].
Anche la giurisprudenza concorda con la dottrina sulla non necessità dell’indicazione nominativa dell’offeso. L’individuazione del soggetto passivo, secondo una recente pronuncia, deve avvenire per mezzo degli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono essere valutati complessivamente e unitamente agli altri elementi che la vicenda offre, così che possa desumersi, con ragionevole certezza, l’inequivoca individuazione dell’offeso consistente cioè nella piena e immediata consapevolezza dell’identità del destinatario[18].
Non sussiste reato nei confronti del singolo soggetto nell’ipotesi in cui l’addebito non è ad esso riferibile, ma concerne una generalità di individui non identificabili specificatamente, sempre che si tratti di una categoria ampia. Nella fattispecie la generalità dell’addebito non è idonea a ledere la reputazione del singolo soggetto, essendo la portata offensiva stemperato dal numero degli offesi. La dimensione del gruppo preso di mira si pone così come indispensabile criterio di valutazione, in quanto, in base a essa, l’offesa può portare all’attacco individuale e a far emergere singole personalità. Una recente pronuncia della Cassazione sostiene, infatti, che nel caso in cui l’espressione lesiva dell’altrui reputazione sia riferibile a un insieme composto da più persone, che siano individuate o comunque individuabili, ciascuna di esse può ragionevolmente sentirsi destinataria di detta espressione lesiva, con conseguente configurabilità del reato de quo in capo a essa[19].
Problematica risulta poi l’ipotesi in cui l’individuazione del soggetto diffamato sia incerta, nonostante la presenza degli elementi oggettivi formulati nella dichiarazione offensiva. Sul punto vi sono due differenti interpretazioni: parte della dottrina esclude la lesione della reputazione nel caso di incertezza del soggetto passivo[20]; altri autori sostengono, invece, che l’offesa a un soggetto incerto possa, in alcuni casi, essere comunque idonea a minare la sua credibilità sociale, aggredita non solo dalla sicura attribuzione di un fatto disonorevole, ma anche dalla creazione maliziosa di un clima di incertezza sull’affidabilità di un soggetto. Questa dottrina, rifiutando rigide esclusioni, ritiene necessaria un’indagine concreta delle circostanze della fattispecie per apprezzare l’eventuale danno o pericolo per il bene tutelato[21].
Sorgono alcune difficoltà nell’affrontare il tema dell’idoneità del soggetto passivo. Una prima questione si pone in merito alla configurabilità del reato nei confronti degli infermi di mente. Una dottrina minoritaria sostiene che questi soggetti non possano subire una diminuzione della reputazione, escludendo così la configurabilità della fattispecie[22]. Secondo altra impostazione, invece, si ritiene che anche nell’infermo vi sia un residuo di personalità tale da poter essere aggredito, in relazione alla vita antecedente all’insorgere della patologia, oppure in caso di infermità parziale[23]. Pur accogliendo la conclusione cui arriva quest’ultima dottrina, orientamenti più recenti sostengono che l’idoneità dell’infermo di mente a divenire soggetto passivo del delitto di diffamazione sia ricollegabile alla inalienabile titolarità del bene della reputazione a capo di ciascun soggetto[24].
E’ senza dubbio esistente, invece, la reputazione del minore di età, la quale, sia sotto l’aspetto di un bene almeno parzialmente già esistente, sia sotto quello di un patrimonio individuale in via di formazione, costituisce il bene giuridico della fattispecie. Egualmente non suscita problemi la posizione del sordo, della persona che dorme o che è svenuta o in stato di coma e dell’ubriaco[25].
Non sono ritenuti, al contrario, soggetti passivi del delitto in esame i defunti, in quanto non più persone. La reputazione del defunto non è tutelata come bene in sé e la condotta diffamatoria in suo danno è espressamente prevista dal legislatore (art. 597, comma 3 c.p.) come aggressione all’onore sociale dei prossimi congiunti[26]. E’ poi altrettanto pacifica la non incriminabilità dell’auto-offensore.
Altra categoria problematica è quella relativa ai soggetti cosiddetti disonorati, cioè persone che la pubblica opinione considera come socialmente degradati e quindi privi di buona considerazione[27].
La dottrina si divide a riguardo in due posizioni: una prima tesi riconosce a essi la titolarità di soggetti passivi solo in relazione a quei settori morali della loro persona rimasti immuni da elementi disonoranti[28], mentre una diversa impostazione non considera concepibile un’offesa a spicchi, cioè lecita o illecita in base all’attribuzione morale dello stesso individuo cui si riferisce, e reputa intollerabili per la dignità umana offese ingiustificate, anche se aventi un fondo di verità[29].
Un profilo fondamentale concernente la soggettività passiva del reato di diffamazione è infine quello concernente la diffamazione delle persone giuridiche e degli enti collettivi di fatto. Una risalente dottrina esclude l’attitudine di tali soggetti a essere offesi dal reato di diffamazione, in quanto essi non sarebbero idonei ad acquisire meriti o demeriti individuali e assumerebbero la loro soggettività fittizia solo in relazione ai diritti che le leggi civili riconoscono loro[30]. Dottrina prevalente invece riconosce l’idoneità soggettiva di tali enti dotati di personalità giuridica, sulla base dell’art. 2 Cost., che “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” anche “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”[31]. Concorde con la dottrina prevalente è anche la giurisprudenza; una delle prime pronunce in tal senso è stata quella con cui si è riconosciuta la soggettività passiva delle “Comunità israelitiche” locali, riconosciute dalla legge come enti esponenziali degli interessi degli ebrei italiani, costituite persone giuridiche ai sensi del r. d. 30 ottobre 1930, n.1731[32].
Più controversa è stata, invece, l’affermazione della soggettività passiva degli enti di fatto e delle associazioni non riconosciute. In un primo momento dottrina e giurisprudenza ritenevano che la diffamazione contro una collettività di persone poteva essere ritenuta ammissibile solo se l’offesa potesse riferirsi a una o più persone determinate all’interno del gruppo[33]. Con la sentenza 16 novembre 1976, n. 4252 la Cassazione ha però riconosciuto che l’ordinamento giuridico prende in considerazione figure soggettive diverse, differenziate solo dalla natura qualitativa della loro rilevanza; quindi, sulla base di una valutazione unitaria radicata nell’ordinamento, anche i soggetti collettivi non personificati possano considerarsi soggetti giuridici[34]. Dello stesso avviso sono state anche le successive sentenze delle sezioni penali della Cassazione, che hanno ammesso l’esistenza di una soggettività intermedia degli enti privi di personalità giuridica, riconosciuti idonei a essere soggetti passivi del delitto di diffamazione. E’ infatti ammissibile in essi l’esistenza di un onore sociale, o collettivo, quale bene morale appartenente a tutti i soci, associati, componenti, membri come un insieme unico, capace di percepire l’offesa. La legittimazione compete tuttavia anche ai singoli componenti del gruppo nel caso in cui queste offese siano tali da potersi riverberare direttamente su di essi, offendendo così non solo la dignità del gruppo, ma anche la loro personale dignità[35].
E’ così generalmente riconosciuta la qualità di soggetti passivi a partiti politici, fondazioni, comunità religiose e Ordini professionali (questi ultimi sia a tutela di posizioni soggettive proprie, sia per difendere l’onore e il prestigio della categoria)[36]. Nessun dubbio, grazie all’espresso riferimento normativo di cui al comma 4 dell’art 595 c.p., si pone, infine, nei confronti dei Corpi politici, amministrativi o giudiziari, o a una loro rappresentanza o a un Autorità costituita in collegio, soggetti individuati in maniera atecnica, ma che possono definirsi come organismi caratterizzati dal requisito di collegialità, che agiscono in posizione di uguaglianza per l’esercizio di una funzione, o nel corso di un’adunanza o comunque emettendo delibere collegiali[37].
1.4. La condotta e l’evento
Non essendo richiesto dall’articolo 595 c.p. che l’azione tipica si realizzi con modalità o mezzi normativamente determinati, ma solo che l’azione sia idonea a ledere il bene protetto, la diffamazione è ritenuta appartenete alla categoria di reati a condotta libera[38]. Questo a testimonianza del rilievo che l’ordinamento giuridico riconosce al bene della reputazione; la scelta tra condotta libera e condotta vincolata è collegata a grado, natura e importanza del bene e infatti la fattispecie a forma libera è riservata specialmente a tutela dei beni personalissimi della vita, dell’incolumità e dell’onore[39]. L’offesa all’altrui reputazione può, quindi, avvenire con qualsiasi modalità e con qualsiasi mezzo: con la parola (diffamazione verbale), con lo scritto (diffamazione scritta), con il disegno, la fotografia, il fotomontaggio, la scultura (diffamazione raffigurata), con atti materiali come atti di dispregio su busti, foto, immagini (diffamazione reale) e oggi anche attraverso la stampa, la radio, la televisione, Internet e i mezzi di comunicazione di massa in generale.
Tre sono i requisiti che vanno a configurare la condotta del delitto di diffamazione: l’assenza dell’offeso, la comunicazione con più persone e l’offesa all’altrui reputazione[40].
E’ proprio l’inciso dell’articolo 595 c.p., “fuori dei casi indicati nell’articolo precedente” (cioè il reato di ingiuria), a porre il requisito dell’assenza del soggetto passivo al momento della perpetrazione dell’offesa. Occorre quindi che l’offeso non sia presente al momento dell’azione criminosa, che sia comunque impossibilitato a percepire l’addebito in maniera diretta, oppure che non si verifichino quei fatti che la legge equipara alla presenza come comunicazione telefonica o telegrafica, scritti o disegni diretti alla persona offesa. A causa di questa assenza, il soggetto passivo è così impossibilitato dal potersi difendere dall’addebito o di ritorcere l’offesa; proprio in questo si fonda la ratio della maggior gravità della fattispecie della diffamazione rispetto all’ingiuria (la sanzione base dell’ingiuria è infatti la reclusione fino a sei mesi o la multa fino a euro 516; la sanzione base della diffamazione è, invece, la reclusione fino a un anno o la multa fino a euro 10329).
Per comunicazione con più soggetti occorre che l’agente renda partecipi dell’addebito diffamatorio almeno due persone, riunite o separate, nello stesso o in differenti luoghi, diverse dal soggetto passivo (a meno di offesa a più persone, poiché ciascuna di esse, nel caso, è terza rispetto all’offesa ricevuta da altra), dal soggetto attivo e dagli eventuali concorrenti del reato. Essendo, come già anticipato, la fattispecie in esame un reato a forma libera, la divulgazione dell’offesa può esplicarsi in ogni modalità e con qualsiasi mezzo comunicativo: dalla comunicazione diretta a quella a distanza tramite mezzo postale, telefonico, telegrafico, radiofonico, televisivo, fotografico, telematico etc. Non è necessario che l’addebito venga comunicato a più persone contemporaneamente, ma è possibile anche la comunicazione non contemporanea, in tempi diversi e con intervalli più o meno lunghi (per esempio mediante lettere spedite a persone in luoghi diversi). L’addebito diffamatorio comunicato a più persone non contemporaneamente può essere identico oppure diverso: la lettera dell’articolo 595 c.p. parla genericamente di “offesa all’altrui reputazione”, abbracciando così l’ipotesi della comunicazione a ogni destinatario di addebiti diversi, ma comunque lesivi della reputazione. Non ammettendo questa conclusione, verrebbe legittimata la facile elusione dell’articolo 595 c.p., consistente nell’offesa all’altrui onore messa in atto comunicando a ogni persona fatti diversi, anche se decisamente disonorevoli. Il requisito della comunicazione a più persone sussiste anche quando l’agente comunichi l’offesa a una sola persona affinché questa, a sua volta, la comunichi ad altre e ciò accada. Nemmeno la comunicazione in via confidenziale esclude la configurazione della fattispecie in esame[41].
Il terzo requisito consiste, infine, nell’offesa all’altrui reputazione. Parte della dottrina qualifica il delitto in questione come reato di danno, in quanto la fattispecie richiede un risultato naturalistico che è duplice e consiste nella percezione materiale, anche se non simultanea, dell’offesa e nella sua comprensione da parte di almeno due persone[42]. Non configurerebbe così il delitto in questione una mera esternazione dell’offesa senza percezione (per esempio per sordità, cecità o anche distrazione), in quanto la comunicazione implica il rapporto bilaterale di dare e ricevere una notizia. Non sarebbe nemmeno sufficiente la sola percezione senza la comprensione del significato offensivo dell’addebito (per esempio per ignoranza o non conoscenza della lingua). Non basta neppure che l’offesa sia percepita o compresa da una sola persona e da questa ripetuta o spiegata, senza l’incarico dell’agente, ad altri soggetti. Secondo questa accezione quindi, la diffamazione costituirebbe un reato di danno, in quanto prende in considerazione unicamente i risultati lesivi della condotta concretamente verificatesi.
Una diversa dottrina, invece, collega i due presupposti della percezione e della comprensione dell’offesa, non tanto all’evento naturalistico, ma alla comunicazione[43]. Secondo questa tesi, per la configurazione della fattispecie in esame, la comunicazione deve essere efficace, cioè, appunto, essere percepita e compresa dai destinatari. Interessante a proposito il caso della diffamazione tramite Internet. Espressamente ammessa la configurazione del reato quando la condotta dell’agente consista nell’immissione di scritti o immagini lesivi dell’altrui reputazione nel “sistema Internet”, non è sufficiente, ai fini dell’effettività della comunicazione, la semplice messa a disposizione dell’addebito all’interno della rete, ma è necessario che la comunicazione offensiva sia stata ricevuta da almeno due soggetti[44].
Prevalente dottrina intende, invece, l’offesa non come lesione, ma come aggressione, mero pericolo, possibilità o probabilità che le parole o gli atti destinati a ledere l’onore provochino un’effettiva lesione, configurando in questo modo la diffamazione come reato di pericolo[45].
All’interno della categoria dei reati di pericolo, la diffamazione rientra tra quelli di pericolo concreto, in quanto si ritiene necessaria l’idoneità della condotta ad aggredire la reputazione e a produrre una situazione di effettiva messa in pericolo di essa[46]. Non si consuma il delitto di diffamazione, quindi, quando le espressioni usate siano inidonee a ledere il bene protetto, per esempio perché avvertite come offensive unicamente dal soggetto passivo oppure quando il fatto addebitato sia impossibile o incredibile.
Così come la dottrina, anche la giurisprudenza è divisa sul punto. Parte di essa accoglie quest’ultima interpretazione e classifica la diffamazione tra i reati di pericolo[47]: la sola comunicazione dell’addebito con terzi, senza verificare che questi abbiano dato credito al giudizio offensivo, sarebbe sufficiente per configurare il delitto in questione. Essendo, infatti, il bene protetto un concetto immateriale qual è la reputazione, sarebbe alquanto difficoltoso verificare l’effettiva diminuzione della stima sociale e quindi la lesione attuale[48]. Altre pronunce hanno propeso invece per la configurazione di un reato di pericolo astratto o di evento[49].
1.5. La consumazione e il tentativo
La differente collocazione della diffamazione tra i reati di danno o tra quelli di pericolo, comporta diverse conseguenze sull’individuazione del momento e del luogo della consumazione.
Accogliendo la dottrina che ricomprende il delitto tra i reati di danno, si avrebbe la consumazione nel momento e nel luogo di percezione – comprensione della comunicazione offensiva da parte di almeno due persone o, in caso di comunicazioni separate, da parte della seconda persona[50].
Se si propendesse, invece, per il riconoscimento della diffamazione quale reato di pericolo, il delitto si consumerebbe nel momento e nel luogo in cui si verificasse la diffusione della manifestazione offensiva. In caso di comunicazioni separate, il momento e luogo consumativi coinciderebbero con quelli della seconda comunicazione [51].
Come anticipato, la giurisprudenza non risulta uniforme. Secondo l’interpretazione più risalente, la diffamazione è configurata come reato di pericolo astratto, la cui consumazione coinciderebbe con la comunicazione a più persone che sia lesiva della reputazione altrui, essendo così priva di rilevanza, nel caso di una minima prolazione prevista dalla legge, una maggiore espansione[52].
Anche la giurisprudenza più recente qualifica la diffamazione come un reato di pericolo, riconducendola però alla specie del pericolo concreto. Il caso è quello della diffamazione commessa tramite spedizione di una missiva; la consumazione si realizza così nel momento e nel luogo dove è avvenuta la comunicazione a più soggetti di fatti idonei a ledere l’altrui reputazione[53].
Altra giurisprudenza ha propeso per la diversa teoria del reato di danno, facendo coincidere il momento e il luogo della consumazione con quello della percezione – comprensione dell’addebito lesivo da parte dei terzi destinatari e addirittura definendo expressis verbis la diffamazione come un reato di evento[54]. In un’altra pronuncia della Cassazione, riferita all’immissione nella rete Internet di frasi offensive e immagini denigratorie, il luogo della consumazione viene considerato quello nel quale le offese e le denigrazioni vengono percepite da più fruitori della rete, propendendo ancora una volta per la configurazione del reato di cui all’articolo 595 c.p. tra i reati di evento[55].
La diffamazione ha natura di delitto istantaneo. In caso di plurime comunicazioni, dunque, sarebbe integrato un unico reato o un concorso di reati, o anche eventualmente la continuazione a seconda che avvengano in un unico contesto (per esempio, invio contestuale di più lettere diffamatorie) o in contesti diversi (per esempio, invio di più lettere diffamatorie in giorni diversi). Più precisamente, si avrà diffamazione continuata nel caso in cui la condotta nei confronti del medesimo soggetto passivo sia reiterata in circostanze tali da escludere l’unità d’azione e far ritenere l’identità del disegno criminoso; si avrà, invece, concorso omogeneo di reati, quando la comunicazione offensiva, realizzata con la medesima condotta, aggredisca la reputazione di più persone. Un’altra conseguenza deriva dalla natura di delitto istantaneo: le condotte successive alla consumazione del reato, come scuse, ritrattazione o condotte di ravvedimento attivo, non influiscono sotto il profilo della sussistenza della condotta, ma possono semmai rilevare nella determinazione della pena, nella concessione di attenuanti generiche, nell’attenuante di cui all’articolo 62 n. 6 c.p.[56] oppure sul risarcimento del danno[57].
Diverse considerazioni vanno fatte a riguardo del momento e luogo consumativo della diffamazione a mezzo stampa.
Un primo orientamento fa coincidere la consumazione con l’attività di stampa, mentre un secondo orientamento identifica il momento consumativo con quello in cui lo stampato esce dalla sfera di disponibilità dell’impresa tipografica[58]. In entrambi i casi la competenza territoriale per il reato di diffamazione a mezzo stampa sarebbe attribuita al giudice del luogo in cui si trova la tipografia dalla quale gli stampati sono usciti per essere posti in circolazione.
Un terzo orientamento individua la consumazione con la prima diffusione e quindi con la reale divulgazione al pubblico dello stampato, perché solo in questo modo si perfezionerebbe il requisito della pubblicità, tipico della diffamazione a mezzo stampa. Tale momento perfezionativo sarebbe infatti coerente con la ratio dell’aggravante di cui al terzo comma dell’articolo 595 c.p., in quanto coincide con l’istante in cui si verifica un offesa più grave rispetto all’ipotesi semplice di reato[59].
L’indirizzo prevalente, accolto anche dalla giurisprudenza, fa coincidere la consumazione con il momento dell’invio o della consegna delle copie d’obbligo alla Prefettura o alla Procura della Repubblica, in ottemperanza all’articolo 1 della l. 2 febbraio 1939, n. 374, in quanto tale momento costituisce pubblicazione in senso tecnico dello stampato e si realizza così la prima diffusione[60].
Caso particolare, preso in considerazione dalla Cassazione, è quello della diffamazione con consumazione a “formazione progressiva”, che si realizza quando gli elementi della fattispecie complessa non si realizzano nello stesso momento, bensì uno dopo l’altro all’interno di una sequenza temporale. Anche in questo caso la consumazione si ha nel momento in cui l’offeso può avere cognizione dell’addebito, a nulla rilevando che questo derivi dal coordinamento dell’ultima espressione denigratoria con quelle precedenti, che potrebbero risultare prive di portata lesiva, se valutate autonomamente. Quindi solo quando il messaggio denigratorio risulti intellegibile, a esito di una serie di articoli costituenti una “campagna di stampa” ai danni di un soggetto, il reato si consuma, non quindi quando il disegno diffamatorio era in itinere[61].
La configurabilità del tentativo è ritenuta pacifica dalla dottrina grandemente maggioritaria[62], ma non manca un’isolata tesi contraria[63]. Secondo quest’ultima dottrina, trattandosi la diffamazione di reato che si consuma con la comunicazione a più persone, o si ha la consumazione, in quanto la comunicazione è perfezionata, oppure si è in presenza di un’azione penalmente irrilevante.
Il tentativo è invece considerato configurabile sia dalla dottrina che considera la diffamazione come reato di danno, sia da quella che lo considera reato di pericolo. Quanto alla prima, il tentativo può configurarsi non solo naturalisticamente, ma anche giuridicamente come tentativo compiuto[64]. Questo avviene quando la comunicazione denigratoria predisposta, non ha luogo perché impedita (per esempio trasmissione radiofonica o televisiva non messa in onda o articolo non pubblicato per divieto del direttore o del magistrato). Oppure la comunicazione non perviene (per esempio lettere non consegnate a causa di un disguido postale o manifesto affisso, ma subito distrutto dalla pioggia) o non viene percepita (per esempio espressioni verbali non udite per distrazione) o non viene compresa (per esempio per scarsa conoscenza della lingua o per incoltura).
Anche la dottrina che accoglie la classificazione della diffamazione trai reati di pericolo riconosce la configurabilità del tentativo, che si ha quando ricorrano i requisiti dell’idoneità lesiva dei mezzi adoperati e dell’univocità della condotta, ma manca il requisito essenziale della comunicazione con più persone, nel caso in cui la condotta sia frazionabile (vale anche in questo ambito l’esempio della lettera non consegnata per disservizio postale, o arrivata a un solo destinatario, oppure l’ipotesi di chi diffama un soggetto con una persona, pregandola, senza successo, di riferire ad altri l’offesa)[65]. Secondo questo orientamento, non sarebbe configurabile il tentativo, invece, in caso di diffamazione commessa tramite comunicazione verbale a più persone, in quanto il bene giuridico viene messo in pericolo e il reato si perfeziona[66].
1.6. L’elemento soggettivo
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, è ormai condivisa in dottrina l’interpretazione secondo la quale la diffamazione sia un reato a dolo generico[67]. L’articolo 595 c.p., infatti, non richiede alcuna condotta teleologicamente orientata al raggiungimento di un fine particolare, tale da classificare il dolo come specifico.
Un risalente e ormai superato profilo problematico è quello riguardante la sussistenza o meno del dolus in re ipsa. La tesi favorevole riteneva, infatti, che la volontà lesiva della condotta sia implicita nell’enunciazione dell’espressione oggettivamente offensiva. Questo principio però non può essere condiviso, risolvendosi essenzialmente in una presunzione (iuris tantum) che comporta un’inversione dell’onere della prova ed essendo tale teoria in netto contrasto col principio di colpevolezza. Questa tesi può, invece, configurarsi come una semplice regola, che porta a una semplificazione probatoria, suscettibile di prova contraria, ma non a un’inversione dell’onere di provare l’accusa, essendo esclusa ogni presunzione di dolo. L’esistenza del dolus in re ipsa può riscontrarsi quando il carattere diffamatorio dell’addebito assuma una consistenza intrinseca che non può sfuggire all’agente e che non necessiti particolari indagini sulla presenza o assenza dell’elemento soggettivo (per esempio nel caso di attribuzione di una condotta gravemente immorale o delittuosa)[68].
Affinché possa ritenersi integrato l’elemento soggettivo della fattispecie è, quindi, sufficiente, in primo luogo, la coscienza e la volontà della condotta offensiva, cioè della comunicazione dell’offesa ad almeno due persone; in secondo luogo, la consapevolezza dell’offensività dell’addebito per la reputazione del soggetto passivo[69]. Rimangono così estranee le cause, i moventi o gli scopi ultimi della determinazione delittuosa.
Una posizione minoritaria, collegata alla classificazione della diffamazione ai reati di danno, reputa necessario un terzo requisito, consistente nella convinzione della percezione e della comprensione dell’offesa da parte di almeno due soggetti, essendo perciò necessarie non solo nei confronti della condotta, ma anche dell’evento. Il soggetto agente deve prevedere e volere il fatto come risultato della sua azione, per cui non sarebbe punibile chi ritiene erroneamente che l’addebito non possa essere materialmente percepito o compreso nel suo significato offensivo[70].
Ormai del tutto superata è, invece, la teoria psicologica, secondo la quale, per integrare il dolo, sarebbe necessario l’accertamento dell’animus diffamandi, cioè l’antisocialità del movente dell’azione. Accogliendo questo orientamento, non sussisterebbe il dolo della diffamazione nel caso di animus corrigendi, narrandi, iocandi, consulendi. In questo modo però la fattispecie si atteggerebbe a reato a dolo specifico, attribuendo così erroneamente all’articolo 595 c.p. un elemento che è certamente estraneo alla fattispecie[71].
L’elemento psicologico del reato di cui all’articolo 595 c.p. può presentarsi sia nella forma di dolo intenzionale, sia in quella di dolo eventuale o indiretto, che ricorre quando la coscienza e la volontà non sono dirette alla realizzazione della condotta tipica, ma il rischio dell’offesa è previsto e accettato come conseguenza eventuale[72].
La giurisprudenza consolidata, nell’individuare l’elemento soggettivo della fattispecie, è uniforme alla dottrina maggioritaria, che reputa sufficiente a integrare il dolo la coscienza e volontà della condotta offensiva e dell’offensività dell’addebito[73].
Verranno a questo punto analizzati alcuni tipi di errore sul fatto, che, ai sensi dell’articolo 47 c.p., esclude il dolo. L’errore può vertere sull’offensività dell’espressione pronunciata dal soggetto passivo, risultando, in questo modo, non punibile chi ritiene erroneamente che l’espressione non sia diffamatoria per scarsa padronanza della lingua o del dialetto, o perché non è offensiva nella comunità d’appartenenza dell’agente. Non è altresì punibile chi ritiene erroneamente che l’addebito non possa essere materialmente percepito o compreso nel suo significato offensivo da almeno due persone o, inoltre, chi suppone erroneamente la presenza di una causa di giustificazione[74].
La Corte di Cassazione ha interpretato in maniera piuttosto estensiva la disciplina sull’errore, arrivando a considerare come errore un comportamento derivante da confusione, tale da determinare un’inesatta prospettazione dei fatti[75].
Per quanto concerne, infine, la diffamazione a mezzo stampa, vi è un orientamento dottrinale che esclude la sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie in caso di successiva pubblicazione della replica o della rettifica da parte del soggetto offeso[76].
Questa teoria non può però trovare accoglimento, in quanto la pubblicazione della replica o della rettifica corrisponde all’adempimento dell’obbligo di consentire l’esercizio del diritto di rettifica, sancito dall’articolo 8 della legge 8 febbraio 1948 n. 47[77] e non può quindi atteggiarsi a elemento rilevante per la configurazione del dolo, considerando che il delitto si è già perfezionato anteriormente al momento della pubblicazione della replica o della rettifica dell’offeso[78].
1.7. L’aggravante dell’offesa a mezzo stampa
Il terzo comma dell’articolo 595 c.p. disciplina l’aggravante speciale costituita dall’offesa recata col mezzo della stampa, con qualsiasi altro mezzo di pubblicità o con atto pubblico. In questo caso la pena consiste nella reclusione da sei mesi a tre anni o nella multa non inferiore a euro 515.
La dottrina fa rientrare tale fattispecie tra i reati a mezzo stampa che si contrappongono, sulla base di una tradizionale bipartizione, ai reati di stampa[79]. Questi ultimi sono infatti considerati quegli illeciti, per lo più di carattere omissivo, consistenti nella violazione di obblighi inerenti alla pubblicazione dello stampato contenuti nella legge 8 febbraio 1948 n. 47; in queste fattispecie il reato si identifica con la pubblicazione e lo stampato è il presupposto del fatto o l’oggetto materiale della condotta. Nei reati a mezzo stampa, invece, la pubblicazione costituisce lo strumento con il quale si realizza un evento esterno rispetto alla stampa (nel caso della diffamazione, l’offesa), che rimane esclusivamente come veicolo di comunicazione del delitto. L’elemento oggettivo, in questa categoria di reati, è costituito dal contenuto dello stampato, in quanto lesivo di interessi e beni tutelati a prescindere dalla stampa[80].
Diversa ripartizione è quella tra i reati pre-stampa, i reati di stampa e i reati post-stampa[81]; nei primi la condotta si manifesta in un momento anteriore rispetto alla stampa, nei secondi la stampa si atteggia come mezzo di diffusione, mentre nei terzi la condotta si consuma posteriormente rispetto alla stampa (che costituisce un presupposto dell’azione). Nonostante la legge 24 novembre 1981 n. 649[82] ne abbia operato un’ampia depenalizzazione, la nozione di reati di stampa è ancora d’uso e, parte della dottrina, fa rientrare la diffamazione a mezzo stampa in questa categoria[83].
Passando alla ratio dell’inasprimento di pena, questa è rinvenuta nella maggiore potenzialità offensiva arrecata all’altrui reputazione, per la peculiare diffusività del mezzo di diffamazione[84]; rispetto a un comune strumento di comunicazione, infatti, la stampa è destinata a una più ampia divulgazione nello spazio, poiché il mezzo (stampato, pellicola cinematografica, registrazione, etc.) ha una capacità diffusiva spaziale ad ampio raggio e così l’addebito può essere percepito da una vasta cerchia di soggetti, determinati o indeterminati; nel tempo, poiché, essendo l’addebito offensivo “incorporato” in un supporto materiale (carta, disco, pellicola, nastro, etc.), diventa possibile la conservazione e quindi la ripetizione di esso con la conseguente rinnovazione dell’offesa (rilettura del giornale, riproiezione del film, riascolto del disco)[85]. Facendo leva su quest’ultimo aspetto, parte della dottrina ha considerato fondamentale, per la ricostruzione della ratio dell’aggravante, oltre alla particolarità della diffusione, proprio la permanenza[86], mentre un ultimo indirizzo ha evidenziato anche il potere di persuasione psicologica e di orientamento di opinione che la stampa possiede[87].
Si è discusso in dottrina sulla natura di fattispecie autonoma di reato o di aggravante della diffamazione a mezzo stampa. Nonostante una tesi minoritaria che propende per la prima soluzione[88], la dottrina prevalente accoglie la seconda tesi[89]. Oltre a fare leva sulla struttura stessa dell’articolo 595 c.p., che colloca la fattispecie in questione al terzo comma, subito dopo l’aggravante del fatto determinato e prima dell’aggravante dell’offesa a Corpi politici, amministrativi etc., questo secondo orientamento evidenzia che le differenze specifiche della diffamazione a mezzo stampa, seppur rilevanti, non sono tali da deviare nettamente dalla configurazione base e da prospettare una nuova e diversa fattispecie autonoma di reato.
Diventa a questo punto necessario, per una corretta individuazione della diffamazione a mezzo stampa (fattispecie conosciuta con il nome di “libello famoso” sotto la vigenza del codice Zanardelli), la definizione del concetto di stampa. Le nozioni di stampa e stampato sono state legislativamente determinate dall’articolo 1 della l. 8 febbraio 1948 n. 47[90], che le individua come tutte le riproduzioni topografiche o, in ogni caso, ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, destinate alla pubblicazione. La diffamazione può quindi considerarsi compiuta a mezzo stampa quando concorrono due requisiti: uno oggettivo, costituito dal mezzo di formazione dello scritto, che nell’ampia disposizione legislativa ricomprende tutte le possibili forme di riproduzione di un testo in più copie uguali tra loro, l’altro soggettivo o finalistico, relativo alla destinazione della pubblicazione, cioè alla divulgazione a un numero indeterminato di soggetti. Non funge da discrimine, invece la periodicità della stampa: l’aggravante sussiste sia riferita alla stampa periodica (quotidiani, riviste), sia a quella non periodica (libri) e anche alla stampa clandestina, diffusa cioè senza l’osservanza di norme di legge[91].
La Cassazione si è occupata a più riprese del problema di far rientrare nel concetto di stampa fattispecie limite. In una risalente sentenza, la Suprema Corte ha classificato come stampa un periodico mensile destinato esclusivamente agli iscritti a un sindacato, stabilendo così la non necessità della destinazione dello stampato alla vendita di un numero indeterminato di soggetti[92]; in altre sentenze, sono stati considerati appartenenti alla categoria stampa i ciclostilati destinati alla diffusione[93] e i manifesti affissi ai muri[94]. Sono stati considerati, invece, esclusi dall’aggravante in questione il pannello compilato a mano ed esposto in pubblico in unico esemplare[95], il tazebao manoscritto, né le lettere riprodotte meccanicamente in un certo numero di esemplari e destinati a soggetti individuati, in quanto l’ampiezza del numero dei destinatari non deve essere predeterminata[96].
Oltre all’offesa arrecata col mezzo della stampa, il terzo comma dell’articolo 595 c.p. prevede altre due ipotesi aggravanti: l’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità o in un atto pubblico.
Per altri mezzi di pubblicità si intendono tutti i mezzi divulgativi differenti dalla stampa, ma che determinano egualmente una maggiore diffusione dell’offesa e un conseguente maggior pregiudizio ai danni del soggetto passivo, anche se non ricorre la permanenza che, una parte minoritaria della dottrina considera requisito necessario per la diffamazione arrecata a mezzo stampa[97]. Tra questi mezzi di pubblicità la dottrina ricomprende comunicazioni radiofoniche, televisive, a mezzo Internet, rappresentazioni cinematografiche, lancio di manifesti, circolari dirette a un ampio numero di persone, espressioni amplificate da megafono in manifestazioni pubbliche o spettacoli[98].
Per atto pubblico la dottrina fa riferimento all’articolo 476 c.p.: deve trattarsi cioè di un atto non soltanto pubblico in senso formale (atto pubblico ai sensi di legge), ma anche destinato alla pubblicità, in modo che ogni persona interessata possa prenderne cognizione. Può trattarsi di atto pubblico certificante fino a querela di falso o anche fino a prova contraria, in quanto fondamentale non è il valore probatorio dell’atto, ma il requisito della destinazione alla pubblicità. Esempi di atto pubblico configurante l’aggravante sono verbali di dibattimento, di assemblee, di protesto cambiario, atti rogati da un notaio, inventario di un’eredità redatto da un cancelliere, atti di notorietà, notificazioni e provvedimenti dell’autorità che devono essere portati a conoscenza dei cittadini[99].
1.8. Le altre aggravanti speciali
Il secondo e quarto comma dell’articolo 595 c.p. disciplinano altri due tipi di aggravanti speciali, consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato e nell’offesa a Corpo politico, amministrativo o giudiziario o a una sua rappresentanza o a un’Autorità costituita in collegio.
Per quanto attiene alla prima aggravante, la ratio dell’inasprimento della pena è individuata nel maggior pregiudizio e per l’onore e la reputazione dell’offeso, derivanti da un fatto sufficientemente delineato nei suoi caratteri, quindi più attendibile agli occhi dei destinatari dell’offesa[100].
Più controversa è, invece, l’individuazione della nozione di fatto determinato. La dottrina sostiene che sia sufficiente che il fatto abbia una certa concretezza e non sia esposto in termini così vaghi da equivalere a un addebito generico[101], oppure che sia storicamente individuato e perciò irripetibile[102].
La giurisprudenza, invece, non è uniforme sul punto. Secondo un primo orientamento, l’aggravante del fatto determinato è costituita dall’addebito di una condotta che non sia designata solamente nel genere e nella specie, ma che sia sufficientemente precisata mediante l’indicazione di elementi concreti e modalità con cui si è svolta, quali quelli relativi a persone, cose, tempo, luogo che valgano a specificare l’azione disonorevole attribuita al soggetto passivo[103].
Un diverso orientamento considera sufficiente che il fatto venga specificato, anche senza indicazioni particolari e dettagli, nelle sue linee essenziali, tali da dare l’impressione di un avvenimento realmente accaduto e storicamente individuato nella sua unicità[104].
Perché sia configurata l’aggravante del fatto determinato, è necessario che l’addebito rivolto a più soggetti si riferisca a fatti sostanzialmente identici, altrimenti si ha soltanto diffamazione semplice. Allo stesso modo, non sussiste l’aggravante se il fatto determinato è comunicato a una sola persona, mentre alle altre è riferito un fatto indeterminato[105]
Rispecchia la difformità nell’interpretazione della giurisprudenza, l’applicazione non omogenea dell’aggravante in casi particolari. E’ stata, infatti, esclusa l’aggravante del fatto determinato per le qualifiche di “ladro”, “esportatore di valuta”, “massacratore e torturatore di italiani” e “persona notoriamente legata alla mafia”, ritenuti tutti addebiti generici. Invece è stata ravvisata l’aggravante in addebiti di infedeltà coniugale e di “vivere alle spalle della moglie”.
Il quarto comma dell’articolo 595 c.p. disciplina l’aggravante speciale consistente nell’offesa a Corpo politico, amministrativo o giudiziario o a una sua rappresentanza o a un’Autorità costituita in collegio. A differenza delle altre due aggravanti speciali, in questo caso la norma non indica una cornice edittale di pena, ma si limita a stabilire che le pene vengono aumentate. Trattasi quindi di circostanza a efficacia comune, che comporta così un aumento della pena fino a un terzo.
La ratio di questa aggravante consiste nell’apprestare una tutela particolare a questi organi detentori di pubblici poteri. Per la definizione di Corpo politico, amministrativo o giudiziario e Autorità costituita in collegio si rimanda a quanto trattato in precedenza[106]. Secondo unanime dottrina, l’offesa deve essere arrecata non al cospetto di detto Corpo, né deve essere a esso direttamente comunicata telegraficamente, o con scritti, disegni o altri strumenti, altrimenti ricorre il delitto di oltraggio di cui all’articolo 342 c.p.. I due requisiti inderogabili per la sussistenza dell’aggravante sono la costituzione in collegio e la determinatezza del Corpo al quale è rivolto l’addebito offensivo; Corpo che deve essere precisato nella sua concreta composizione, avente per legge costituzione unitaria, entità propria e considerazione giuridica distinta dalle persone che lo compongono[107].
Alcune considerazioni vanno ora fatte in merito al concorso tra le tre aggravanti speciali.
Nel caso di concorso tra l’aggravante di cui al secondo comma dell’articolo 595 c.p. (attribuzione di un fatto determinato) e quella di cui al terzo comma (offesa arrecata a mezzo stampa), l’articolo 13 della l. 8 febbraio 1948, n. 47 determina una specifica pena, consistente nella reclusione fino a sei anni e della multa non inferiore a euro 258. La diffamazione commessa con il mezzo della stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, non costituisce però un’autonoma fattispecie di reato, ma una circostanza aggravante complessa. Tale circostanza, in un primo momento, era prevista esclusivamente per la stampa, ma al termine di diversi interventi legislativi, è stata estesa anche a radio e televisione[108].
Nel caso di concorso tra l’aggravante di cui all’articolo 595 comma 3 e comma 4, così come nel caso di concorso tra l’aggravante di cui ai commi 2 e 4, si applica la disciplina del concorso omogeneo di circostanze: il giudice provvederà quindi in un primo momento all’applicazione della circostanza a effetto speciale (di cui ai commi 2 e 3) e, sulla pena così determinata, procederà all’aumento fino a un terzo.
- 2. Gli altri reati a mezzo stampa
Terminata l’analisi del delitto di diffamazione, occorre soffermarsi sulle diverse altre fattispecie che possono essere commesse col mezzo della stampa e che formano, appunto, il diritto penale della stampa.
Un primo insieme di reati è quello relativo alla violazione del segreto di Stato. Al giornalista, ancor prima della pubblicazione della notizia o anche della confezione dell’articolo, può essere addebitato il procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, di cui all’articolo 256 c.p., che punisce con la reclusione da tre a dieci anni chiunque si procura notizie che, nell’interesse politico, interno o internazionale, dello Stato, devono rimanere segrete. La pena è, invece da due a otto anni se il soggetto attivo si è procurato notizie di cui l’Autorità competente ha vietato la pubblicazione. Queste attività però non sono ancora classificabili come reati di stampa, ma spesso sono prese in considerazione in quanto la condotta può porsi come prodromica alla pubblicazione.
Quando poi, dal procacciamento si passa alla rivelazione, nel nostro caso tramite pubblicazione, assumono rilievo gli articoli 261 e 262 c.p.. La rivelazione di un segreto di Stato (art. 261 c.p.) è fattispecie che prevede la reclusione non inferiore a cinque anni per chi rivela le notizie a carattere segreto di cui all’articolo 256. L’articolo 262 c.p. (Rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione) sanziona, invece, con reclusione non inferiore a tre anni chiunque rivela notizie delle quali l’Autorità competente ha vietato la divulgazione. Entrambe le fattispecie prevedono aggravanti nel caso in cui il fatto venga compiuto in tempo di guerra o abbia compromesso la preparazione o l’efficienza bellica dello Stato o le operazioni militari o se il colpevole abbia agito a scopo di spionaggio militare e un’attenuante nel caso in cui il fatto sia compiuto per colpa. Per trovare un caso giurisprudenziale in merito, occorre risalire a una sentenza della Corte d’Assise di Roma, che ha condannato ex articoli 256 e 262 c.p. il direttore della rivista “Il Mondo” per aver pubblicato un rapporto riservato trasmesso dall’Ambasciatore italiano a Lisbona al Ministero degli Affari Esteri.
Una seconda categoria di reati che possono essere commessi tramite l’elemento stampa è quella comprendente diverse fattispecie di vilipendio. Anche in questi casi, perché abbia rilevanza il mezzo stampa, occorre che l’offesa avvenga tramite pubblicazione. La prima fattispecie è quella che sanziona l’offesa all’onore o al prestigio del presidente della Repubblica con la reclusione da uno a cinque anni (art. 278 c.p.). Un caso in cui l’offesa all’onore dell’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi è avvenuto col mezzo della stampa è quello che ha portato alla condanna del direttore della rivista “Candido”, per aver pubblicato una vignetta rappresentante il presidente con accanto due filari di bottiglie di Nebbiolo[109]. Vilipendio si può avere anche, ai sensi dell’articolo 290 c.p., quando la pubblica offesa è rivolta contro la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, il Governo, la Corte costituzionale, l’ordine giudiziario, le forze armate dello Stato o quelle della liberazione; la pena consiste nella multa da euro 1.000 a euro 5.000. Le ulteriori fattispecie di vilipendio sono quelle considerate dagli articoli 403 c.p. che sanziona con la multa da euro 1.000 a euro 5.000 chiunque pubblicamente offende una confessione religiosa mediante vilipendio di chi la professa e dal 404 c.p. che attribuisce la medesima pena a chiunque, in luogo destinato al culto, o in luogo pubblico o aperto al pubblico, offendendo una confessione religiosa, vilipende con espressioni ingiuriose cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente all’esercizio del culto, ovvero commette il fatto in occasione di funzioni religiose, compiute in luogo privato da un ministro del culto[110]. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha escluso il vilipendio a mezzo stampa nel caso di offese pubblicate su “forum”, “blog”, “newsletter”, “mailing list” o “chat”, in quanto questi mezzi non sono ricompresi nell’area di applicazione della l. 8 febbraio 1948, n. 47[111].
Sono comprese nel Titolo V del Codice Penale, Dei reati contro l’ordine pubblico, altre fattispecie che si possono consumare tramite la stampa. Si ha istigazione a delinquere ex articolo 414 c.p. nel caso di pubblica istigazione a commettere uno o più reati, per il solo fatto di aver istigato. La sanzione cambia a seconda che si tratti di istigazione mirata a compiere delitti (reclusione da uno a cinque anni) o contravvenzioni (reclusione fino a un anno o multa fino a euro 206). Secondo il terzo comma, soggiace alla stessa pena prevista per l’istigazione a commettere delitti, chi fa pubblicamente apologia di delitti. La legge 31 luglio 2005, n. 155 ha poi introdotto un ultimo comma che prevede l’aumento delle pene fino alla metà se l’istigazione o l’apologia riguarda reati di terrorismo o crimini contro l’umanità. La Corte di Cassazione si è pronunciata in merito, stabilendo che, perché l’istigazione a delinquere venga commessa a mezzo stampa, deve essere accertata l’idoneità dello stampato a turbare l’ordine pubblico (bene giuridico tutelato dalla fattispecie istigazione), tenendo conto dei limiti che il diritto di cronaca e di critica trovano quando devono essere bilanciati da altri beni costituzionalmente tutelati, quale in questo caso l’esigenza di prevenire o far cessare i turbamenti della sicurezza pubblica[112].
Assimilabile all’articolo 414 c.p. è l’istigazione a disobbedire alle leggi di ordine pubblico o all’odio tra classi, punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni dall’articolo 415 c.p.. Tra i casi giurisprudenziali è possibile citare la sentenza che ha ricompreso nella suddetta fattispecie l’obiezione fiscale, messa in atto tramite l’incitamento rivolto a mezzo stampa a non versare quella parte delle imposte destinate alle spese militari[113].
Un altro reato di apologia è quello previsto dall’articolo 4 della “legge Scelba”[114] in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. L’articolo 4 della suddetta legge punisce la propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista[115]. La pena, disposta anche nei confronti di chi esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche, o se riguarda idee o metodi razzisti[116], consiste nella reclusione da sei mesi a due anni e nella multa da lire 400000 a lire 1000000. Al quarto comma è anche previsto un aumento di pena (reclusione da due a cinque anni e multa da lire 1000000 a lire 4000000) nel caso in cui l’apologia è commessa a mezzo stampa.
Altro reato suscettibile di essere commesso tramite la stampa è l’aggiotaggio. Tale fattispecie trova collocazione sia nel codice penale all’articolo 501 (Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio), sia nel codice civile all’articolo 2637, così come modificato dall’dlgs. 11 aprile 2002, n. 61.. La condotta descritta nelle due norme presenta un nucleo comune, consistente nella divulgazione di notizie false o altri artifizi col fine di cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci, ovvero dei valori ammessi nelle liste di borsa o negoziabili nel pubblico mercato (art. 501 c.p.) o del prezzo di strumenti finanziari non quotati o per i quali non è stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato (art. 2637 c. c.). Essendo l’aggiotaggio un reato di pericolo concreto che si consuma nel luogo e nel momento della diffusione della notizia falsa a un numero indeterminato di persone[117], la stampa può rilevare come mezzo di questa diffusione.
Non crea problemi sotto il profilo della riconducibilità all’interno dei reati di stampa, il delitto di cui all’articolo 528 c.p.. Inserito all’interno del Libro II – Titolo IX (Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume) – Capo II (Delle offese al pudore e all’onore sessuale), il reato di pubblicazione e spettacoli osceni punisce chi, per farne commercio o distribuzione o per esporli pubblicamente, fabbrica, introduce nel territorio dello Sato, acquista, detiene, esporta, o mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie (la pena consiste nella reclusione da tre mesi a tre anni e nella multa non inferiore a 103 euro). Al terzo comma dell’articolo 528 c.p. viene estesa l’applicazione della pena nei confronti di chi favorisce la circolazione o il commercio degli oggetti indicati nel primo comma mediante qualsiasi mezzo di pubblicità e di chi dà pubblici spettacoli teatrali o cinematografici, o audizioni o recitazioni pubbliche con carattere di oscenità. Per una definizione di atti e oggetti osceni, il legislatore ha voluto inserire un’apposita norma all’articolo 529 c.p. per cui è osceno ciò che offende il pudore e non consista in un’opera d’arte o di scienza. Palese come in questa fattispecie, la stampa possa assumere rilievo come mezzo di pubblicazione.
La legge 8 febbraio 1948, n. 47 prende in considerazione, agli articoli 14 (pubblicazioni destinate all’infanzia o all’adolescenza) e 15 (pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante), due casi nei quali si applicano le disposizioni dell’articolo 528. La condotta di cui all’articolo 14 si realizza quando le pubblicazioni destinate a fanciulli e adolescenti per la loro sensibilità e impressionabilità, siano idonee a offendere il loro sentimento morale o a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto o al suicidio e inoltre quando la descrizione o l’illustrazione di vicende poliziesche e di avventure, all’interno di giornali e periodici destinati all’infanzia, sia fatta, sistematicamente o ripetutamente, in modo da favorire istinti di violenza e di indisciplina sociale. L’articolo 15, invece, prevede l’applicazione delle norme di cui all’articolo 528 c.p. nei casi stampati che descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o immaginari, tali da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o di delitti.
Altra fattispecie classificabile trai reati a mezzo stampa è l’attentato alla morale familiare commesso col mezzo della stampa periodica (articolo 565 c.p.). Classificato nel Libro II – Titolo XI (Dei delitti contro la famiglia) – Capo II (Dei delitti contro la morale familiare), la fattispecie punisce con la multa da 103 euro a 516 euro chi espone o mette in rilievo circostanze tali da offendere la morale familiare all’interno della cronaca, dei disegni o delle inserzioni pubblicitarie nei giornali o in altri scritti periodici.
La legge 8 aprile 1974, n. 98, ha introdotto nel Codice Penale, dopo gli articoli 614 e 615 (violazione di domicilio e violazione di domicilio commessa da pubblico ufficiale), l’articolo 615 bis sulle interferenze illecite nella vita privata, allo scopo di fronteggiare nuove tipologie di aggressioni rese possibili dal progresso tecnologico, tutelando la riservatezza domiciliare. Sono punite due distinte condotte delle quali l’una, l’indiscrezione, può essere catalogata come attività illecita che anticipa la pubblicazione della notizia, l’altra, la divulgazione, si può ritenere un reato che può essere commesso a mezzo stampa. Il primo comma dell’articolo 615 bis c.p. punisce chiunque, con l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata nell’abitazione altrui, o in altro luogo di privata dimora o nelle appartenenze di questi. Pertanto, può integrare una condotta prodromica alla pubblicazione e potrà essere penalmente perseguibile il fotografo che, con teleobiettivi o mezzi analoghi, carpisca le altrui immagini quando le persone ritratte si trovino in casa propria, o nel loro giardino chiuso e recintato, o in un altro luogo non visibile dalla pubblica via. Ugualmente potrà essere penalmente perseguibile colui che mediante appositi microfoni o microspie carpisca notizie o capti conversazioni che si svolgono in luoghi privati. Il secondo comma punisce la divulgazione, ovvero chi rivela o diffonde le notizie o immagini ottenute nei modi indicati nel primo comma, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico. Spetterà così al giornalista, che acquista fotografie o riceve notizie riservate, l’onere di accertare che esse non siano state carpite con i mezzi e con i modi proibiti dall’art. 615 bis c.p., potendo altrimenti anch’egli essere incriminato.
Un altro breve cenno va fatto a riguardo di ulteriori fattispecie incriminatrici che possono riguardare il giornalista nell’atto di acquisire notizie o del rivelare un certo tipo di esse: l’art. 618 c.p., che punisce colui che, essendo venuto abusivamente a cognizione del contenuto di una corrispondenza a lui non diretta, che doveva rimanere segreta, senza giusta causa lo rivela, in tutto o in parte; l’art. 621 c.p., che punisce colui che essendo venuto abusivamente a cognizione del contenuto, che debba rimanere segreto, di altrui atti o documenti, pubblici o privati, non costituenti corrispondenza, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto; l’art. 617 c.p. che punisce il fatto di chiunque, fraudolentemente, prende cognizione di una comunicazione o di una conversazione, telefoniche o telegrafiche, tra altre persone o comunque a lui non dirette, ovvero le interrompe o le impedisce e di chiunque rivela, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, in tutto o in parte, il contenuto delle comunicazioni o delle conversazioni” intercettate; l’art. 617 bis c.p., che punisce chiunque, fuori dei casi consentiti dalla legge, installa appartai, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche tra altre persone.
Ipotesi esclusivamente di scuola è il favoreggiamento a mezzo stampa. L’articolo 278 c.p., che punisce chi, a seguito della commissione di un delitto per il quale è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione, e fuori dei casi di concorso del medesimo, aiuta taluno ad eludere le investigazioni dell’autorità, o a sottrarsi alle ricerche, potrebbe commettersi a mezzo stampa nel caso in cui il giornalista che, venuto a conoscenza di notizie su un’inchiesta penale, voglia trasmetterle a uno degli imputati mediante un articolo. Il favoreggiamento è però considerato reato doloso e quindi, per integrare gli estremi della fattispecie, occorre la conoscenza e la volontà dell’aiuto che l’attività posta in essere dal giornalista sia in grado di dare.
L’art. 656 c.p. punisce come reato contravvenzionale la pubblicazione o la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico (arresto fino a tre mesi o ammenda fino a 309 euro). La Corte Costituzionale è stata chiamata per tre volte a giudicare circa la conformità a Costituzione dell’art. 656 c.p. in riferimento all’art. 21 Cost., ritenendo sempre legittima la norma, in quanto il concetto di ordine pubblico esclude che il diritto di manifestare il proprio pensiero possa giustificare la lesione di tale bene[118].
Rientra, infine, tra i reati a mezzo stampa, il delitto di stampa clandestina, previsto all’articolo 16 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 e che punisce chi pubblica un giornale o un altro periodico senza la registrazione di cui all’articolo 5 della medesima legge[119], oppure chi pubblica uno stampato non periodico dal quale non risulti il nome dell’editore né quello dello stampatore o nel quale questi non siano indicati in modo veritiero (la pena prevista è la reclusione fino a due anni o la multa fino a lire 500.000). Il provvedimento di registrazione consiste in un mero controllo di legittimità della regolarità formale dei documenti prodotti e della rispondenza del loro contenuto alle disposizioni di legge. La registrazione di un periodico, quindi, non costituisce un limite preventivo alla libertà di stampa , essendo esclusa nell’emissione del suddetto provvedimento ogni valutazione discrezionale circa l’opportunità di consentire o meno la pubblicazione. La finalità della registrazione è unicamente quella di garantire la repressione degli abusi e di individuare i soggetti responsabili di eventuali illeciti commessi a mezzo stampa . Essa rappresenta soltanto una condizione di legittimità della pubblicazione, la cui mancanza dà luogo al reato di stampa clandestina. Sul punto si è espressa la Corte Costituzionale che ha escluso che la disposizioni in esame possa compromettere le libertà riconosciute e garantite dall’articolo 21 della Costituzione; inoltre, nella stessa pronuncia la Consulta ha affermato che l’obbligo della registrazione riguarda esclusivamente i giornali quotidiani o periodici, sicché non pone alcuno ostacolo a un soggetto che manifesti il proprio pensiero con singoli stampati o con numeri unici[120]. Con la legge 7 marzo 2001, n. 62 il legislatore ha però esteso il concetto di prodotto editoriale, ricomprendendo in esso non solo il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ma anche quello realizzato su supporto informatico destinato alla pubblicazione anche con mezzo elettronico, e ha esteso l’applicazione degli articoli 2 e 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 anche ai giornali e periodici telematici. La nuova legge al primo comma dell’articolo 1 statuisce che per prodotto editoriale si intende il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora e televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici e stabilisce, al terzo comma, che al prodotto editoriale si applicano le disposizioni di cui all’articolo 2 della legge 8 febbraio 1948 n. 47. In una recente pronuncia, il Tribunale di Modica ha inquadrato nella fattispecie di stampa clandestina il prodotto pubblicato su un sito internet in quanto proprio il suo autore, intitolandolo “AAAAA giornale di informazione civile”, ha definito e qualificato il proprio prodotto come giornale diretto a svolgere attività di informazione e, dunque, come prodotto editoriale soggetto a registrazione ex articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. L’inottemperanza a tale obbligo integra così il reato in esame ai danni dell’autore, non assumendo rilevanza, al fine di escludere la responsabilità penale, l’affermazione secondo cui il prodotto non fosse un quotidiano, ma semplicemente un “blog” inteso come diario di informazione civile. Il “blog” è principalmente uno strumento di comunicazione ove chiunque può scrivere ciò che vuole e come tale può anche essere usato per pubblicare un giornale[121].
Infine, qualora il rato di stampa clandestina non possa integrarsi, è punito come reato contravvenzionale dall’articolo 668 bis c.p. chi, in qualsiasi modo, divulga stampe o stampati pubblicati senza l’osservanza delle prescrizioni di legge sulla pubblicazione e diffusione della stampa periodica e non periodica (sanzione amministrativa pecuniaria da lire 200.000 a lire 1.200.000).
Gli articoli 684 e 685 c.p. fanno invece riferimento alla pubblicazione di atti o notizie relativi a un procedimento penale[122]. La prima delle due norme sanziona con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da lire centomila a lire cinquecentomila chi pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o per scopo d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata la pubblicazione. Secondo l’articolo 685 c.p., invece, integra la condotta sanzionabile con l’arresto fino a quindici giorni o con l’ammenda da lire cinquantamila a lire duecentomila chi pubblica i nomi dei giudici dando a essi una valutazione professionale.
[1] Sul punto si rimanda all’apposito 1.5.
[2] Mantovani, Delitti contro la persona, Padova, 2005, p. 235; Marinucci – Dolcini, sub. art. 595 c.p. in Codice Penale Commentato, Dei Delitti contro la persona, Milano, 1999, p. 4042; Fiandaca – Musco,I delitti contro la persona, in Diritto penale Parte speciale, Bologna, 2007, p. 87.
[3] Polvani, La diffamazione a mezzo stampa, Padova, 1998, p. 23.
[4] Mantovani, op. cit., Padova, 2005, p. 235; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4042; Fiandaca – Musco, op. cit., p. 87.
[5] Mantovani, op. cit, p. 235.
[6] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4042.
[7] Fiandaca – Musco, op. cit., p. 78.
[8] Cass. Pen., Sez. V, 30/11/2005, Sorbo, CED 233887.
[9] Cass. Pen., Sez. V, 28/02/1995, Labertini Padovani, CED 201054.
[10] Verri – Cardone, Diffamazione a mezzo stampa e risarcimento del danno, Milano, 2007, p. 5.
[11] Cass. Pen., Sez. V, 23/09/2008, Cibelli, CED 241739.
[12] Cass. Pen., Sez. V, 04/12/1991, Cecchetti, in Giust. pen., 1992, II, 431.
[13] Cass. Pen., Sez. V, 04/07/2008, Chiesa, CED 241183.
[14] Cass. Pen., Sez. V, 22/09/2004, Liori, CED 230574.
[15] Mantovani, op. cit., p. 233.
[16] Polvani, op. cit., p. 30 ss.; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4045.
[17] Polvani, op. cit., p. 30.
[18] Cass. Pen., Sez. V, 08/07/2008, De Bortoli, CED 241584.
[19] Cass. Pen., Sez. V, 28/03/2008, Meli, CED 239831.
[20] Manzini, Trattato di diritto penale, Torino, 1948, p. 399.
[21] Polvani, op. cit., p. 31.
[22] Jannitti Piromallo, Ingiuria e diffamazione, Torino, 1953, p. 46.
[23] Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte Speciale, Milano, 2000, p. 168.
[24] Polvani, op. cit., p. 35.
[25] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4043.
[26] Polvani, op. cit., p. 36.
[27] Si richiama, in merito, al 1.1..
[28] Manzini, op. cit., p. 403.
[29] Verri – Cardone, op. cit., p. 7.
[30] Manzini, op. cit., p. 408.
[31] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4044.
[32] Cass. Pen., Sez. V, 16/02/1986, D’Amato, in Cass. pen., 1986, p. 1755, che supera l’opposto orientamento Cass. Pen., Sez. I, 24/02/1964, Durando, CED 099095.
[33] Cass. Pen., Sez. II, 07/03/1956, Zagami, in Giust. pen., 1957, II, p. 192.
[34] Polvani, op. cit., p. 40.
[35] Cass. Pen., Sez. V, 24/01/1992, Bozzili, in Cass. pen., 1993, p. 1705; Cass. Pen., Sez. V, 07/10/1998, Faraon, CED 213415.
[36] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4045.
[37] Per Corpi politici si possono intendere organi costituzionali, come governo e parlamento; per Corpi amministrativi , il Consiglio di Stato, la Corte dei conti, i consigli comunali, provinciali e regionali; per Corpi giudiziari ogni organo collegiale che esercita la funzione giurisdizionale; Autorità costituite in collegio sono tutti gli altri uffici esercitanti una pubblica funzione collettivamente (per esempio il Senato Accademico do un’Università).
[38] Polvani, op. cit., p. 49.
[39] Mantovani, op. cit., p. 163.
[40] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4045 ss.; Mantovani, op. cit., p. 234; Fiandaca – Musco, op. cit., p. 88; Polvani, op. cit., p. 49, Antolisei, op.cit., 205.
[41] Mantovani, op. cit., p. 235.
[42] Mantovani, op. cit., p. 235.
[43] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4046; Verri – Cardone, op. cit., p. 19.
[44] Per l’approfondimento della diffamazione a mezzo internet, si rinvia al Capitolo IV.
[45] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4046; Antolisei, op. cit., p. 196.
[46] Polvani, op. cit., p. 52.
[47] Polvani, op. cit., p. 51; Manzini, op. cit, p. 637.
[48] Polvani, op. cit., p. 51; Manzini, op. cit., p. 637.
[49] Per una distinzione più approfondita, Capitolo I, 1.5.
[50] Mantovani, op. cit., p. 236; Polvani, op. cit., p. 61.
[51] Antolisei, op. cit., p. 206.
[52] Cass. Pen., Sez. I, 15/05/1979, Mitolo, CED 142490.
[53] Cass. Pen., Sez. I, 26/05/2004, Bruni, CED 229846.
[54] Cass. Pen., Sez. V, 21/06/2006, Cicino, CED 234528; Cass. Pen., Sez. V, 5/03/2004, Giacalone, CED 227754.
[55] Cass. Pen., Sez. II, 21/02/2008, Buraschi, CED 242085.
[56] “l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato”.
[57] Polvani, op. cit., p. 62.
[58] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4070.
[59] Mantovani, op. cit., p. 239; Manzini, op. cit., p. 636.
[60]Cass. Pen., Sez. V, 28/07/1990, in Giust. pen., 1991, II, p. 389; Matinucci – Dolcini, cit., p. 4070; Polvani, op. cit., p. 309.
[61] Cass. Pen., Sez. V, 19/12/2005, Ambrogio, CED 233846.
[62] Mantovani, op. cit., p. 237; Antolisei, op. cit., p. 207; Fiandaca – Musco, op. cit., p. 90; Polvani, op. cit., p. 62.
[63] Manzini, op. cit., p. 639.
[64] Mantovani, op. cit., p. 237.
[65] Polvani, op. cit., p. 62; Antolisei, op. cit., p. 207.
[66] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4070.
[67] Mantovani, op. cit., p. 256; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4068; Antolisei, op. cit., p. 207; Polvani, op. cit., p. 44; Fiandaca – Musco, op. cit., p. 90; Jannitti Piromallo, op. cit., p. 248; Verri – Cardone, op. cit., p. 25.
[68] Polvani, op. cit., p. 45.
[69] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4068; Antolisei, op. cit., p. 207; Fiandaca – Musco, op. cit., p. 90
[70] Mantovani, op. cit., p. 256; Polvani, op. cit., p. 45; Jannitti Piromallo, op. cit., p. 248; Verri – Cardone, op. cit., p. 25.
[71] Polvani, op. cit., p. 46; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4068.
[72] Polvani, op. cit., p. 48; Mantovani, op. cit., p. 236; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4068.
[73] Cass. Pen., Sez. V,14/04/1983, Minerva, CED 160145; Cass. Pen., Sez.V, 17/04/1985, CED 169146.
[74] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4069; Mantovani, op. cit., p. 236.
[75] Cass. Civ., Sez. III, 24/04/2008, CED 602949.
[76] Polvani, op. cit., p. 48.
[77] La legge 24 novembre 1981 n. 689 ha però depenalizzato il precedente illecito contravvenzionale, oggi punito con la sola sanzione amministrativa.
[78] Polvani, op. cit., p. 48.
[79] Polvani, op. cit., p. 69.
[80] Polvani, op. cit., p. 70.
[81] Nuvolone, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, p. 27; Polvani, op. cit., p. 70.
[82] Sono state depenalizzate le seguenti condotte: omessa o non veritiera di luogo e data della pubblicazione, di nome e domicilio dello stampatore e, per le pubblicazioni periodiche, del nome del proprietario e del direttore responsabile; omessa consegna dello stampato o del periodico alla prefettura e alla procura della Repubblica; omessa indicazione, sul frontespizio o sull’ultima pagina del testo dello stampato o del periodico, sia del nome che del domicilio legale dell’editore e dello stampatore ed inoltre dell’anno di effettiva pubblicazione; omessa dichiarazione di mutamento dei requisiti; rifiuto di pubblicazione della rettifica.
[83] Polvani, op. cit., p. 71; Nuvolone, op. cit., p. 28.
[84] Mantovani, op. cit., p. 238; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4072; Antolisei, op. cit., p.208; Fiandaca – Musco, op. cit., p. 91.
[85] Mantovani, op. cit., p. 238; Marinucci – Dolcini, op. cit., p. 4072.
[86] Jannitti Piromallo, op. cit., p. 270.
[87] Marinucci – Dolcini, op. cit., p. 4072.
[88] Nuovolone, op. cit., p. 43.
[89] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4072; Manzini, op. cit., p. 647.
[90] Definizione di stampa o stampato – “Sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”.
[91] Polvani, op. cit., p. 71; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4072.
[92] Cass. Pen., Sez. I, 10/04/1963, Cuccinello, in Cass. Pen., 1964, p. 498.
[93] Cass. Pen., Sez. V, 24/09/1985, Aufiero, CED 171612.
[94] Cass. Pen., Sez. I, 01/04/1966, Lacolla, CED 101990.
[95] Cass. Pen., Sez. I, 13/04/1976, Carsani, in Cass. Pen., 1977, p. 1042.
[96] Cass.Pen., Sez. I, 28/06/1985, Cirio, CED 170148.
[97] Janniti Piromallo, op. cit., p. 277.
[98] Mantovani, op. cit., p. 238; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4073.
[99] Mantovani, op. cit., p. 239; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4073; Janniti Piromallo, op. cit., p. 279; Antolisei, op. cit., p. 209; Manzini, op. cit., p. 649.
[100] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4071; Antolisei, op. cit., p. 208; Mantovani, op. cit., p. 237; Fiandaca – Musco, op. cit., p. 91; Polvani, op. cit., p. 66.
[101] Antolisei, op. cit., p. 208; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4071.
[102] Mantovani, op. cit., p. 205.
[103] Cass. Pen., Sez. V, 10/04/1981, Ferraresi, in Giust pen., 1983, II, p. 144.
[104] Cass. Pen., Sez. V, 27/04/1990, Guastella, CED 185117.
[105] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4071; Mantovani, op. cit., p. 237.
[106] Si rimanda a 1.3.
[107] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4075; Mantovani, op. cit., p. 237; Antolisei, op. cit., p. 207; Janniti Piromallo, op. cit., p. 282; Manzini, op. cit., p. 650.
[108] Sul punto si rimanda al Capitolo IV.
[109] Vino prodotto da Einaudi e che sponsorizzava come “Vino del presidente”.
[110] Articoli così modificati dalla l. 24 febbraio 2006, n. 85.
[111] Cass. Pen., Sez. III, 11/12/2008, Donvito, CED 243085.
[112] Cass. Pen., Sez. I, 10/12/1990, Bonanno, CED 186160.
[113] Trib. Sondrio, 11/02/1983, in Dir. eccl., 1983, p. 327.
[114] L. 20 giugno 1952, n. 645.
[115] Definizione delle finalità previste all’art. 1 della l. 20 giugno 1952, n. 645.
[116] Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e la multa da uno a due milioni di lire.
[117] Trib. Milano, 25/06/2005, in Foro ambrosiano, 2005, p. 208.
[118] C. Cost., 16/03/1962, n. 19, in www.cortecostiuzionale.it; C. Cost., 29/12/1972, n. 199, in www.cortecostiuzionale.it; C. Cost., 3/08/1976, n. 210, in www.cortecostiuzionale.it.
[119] Art. 5 – “Registrazione –
Nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi.
Per la registrazione occorre che siano depositati nella cancelleria:
1) una dichiarazione, con le firme autenticate del proprietario e del direttore o vice direttore responsabile, dalla quale risultino il nome e il domicilio di essi e della persona che esercita l’impresa giornalistica, se questa è diversa dal proprietario, nonché il titolo e la natura della pubblicazione;
2) i documenti comprovanti il possesso dei requisiti indicati negli artt. 3 e 4;
3) un documento da cui risulti l’iscrizione nell’albo dei giornalisti, nei casi in cui questa sia richiesta dalle leggi sull’ordinamento professionale;
4) copia dell’atto di costituzione o dello statuto, se proprietario è una persona giuridica.
Il presidente del tribunale o un giudice da lui delegato, verificata la regolarità dei documenti presentati, ordina, entro quindici giorni, l’iscrizione del giornale o periodico in apposito registro tenuto dalla cancelleria.
Il registro è pubblico”.
[120] C. Cost., 12/01/1972, n. 2, in www.cortecostiuzionale.it.
[121] Trib. Modica, 08/05/2008, Ruta, in Dir. informatica, 2008, p. 815.
[122] Per approfondimenti, si veda il capitolo II.
Secondo Capitolo
LE SCRIMINANTI
Dopo aver individuato i reati realizzabili col mezzo della stampa, è opportuno approfondire il tema delle scriminanti. Si è scelto di dedicare un capitolo a parte per la fondamentale rilevanza che alcune di esse rivestono nell’ambito del mondo della stampa. Ci si riferisce in particolare al diritto di cronaca, al diritto di critica e al diritto di satira. Tali scriminanti, elaborate dalla giurisprudenza sulla base del principio della libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita dall’articolo 21 Cost., svolgono oggi un ruolo determinante nella vita sociale e nella formazione dell’opinione pubblica, tramite essenziale per garantire l’efficacia di uno stato democratico. In base all’articolo 51 c.p. infatti, a esse viene riconosciuto il valore di cause di giustificazione del reato di diffamazione per l’esercizio di un diritto, in quanto, nel bilanciamento tra valori costituzionalmente protetti, il diritto – dovere di informazione scaturente dall’articolo 21 Cost., prevale sul diritto del singolo a vedersi tutelata la propria reputazione, seppur nei limiti che saranno analizzati.
Oltre alla loro natura, al loro fondamento, alle loro condizioni e requisiti, verranno trattate anche alcune forme particolari nelle quali possono esplicarsi (per es. cronaca giudiziaria o critica politica) e le differenze della loro disciplina rispetto a quella generale.
Prima di affrontare questi argomenti, per completezza verranno analizzate l’exceptio veritatis di cui all’articolo 596 c.p., l’immunità giudiziaria di cui all’articolo 598 c.p. e la provocazione prevista dal secondo comma dell’articolo 599 c.p.. Tali ipotesi, la cui natura giuridica è oggetto di dibattito, nel senso che si discute se debbano essere considerate come scriminanti ovvero cause di non punibilità, danno rilevanza a situazioni di frequente ricorrenza nell’ambito della tutela all’onore. Un discorso a parte merita, inoltre, il caso in cui l’addebito diffamatorio sia stato espresso da un membro del parlamento nell’ambito di tutela del primo comma dell’articolo 68 Cost., che disciplina il regime dell’immunità parlamentare.
1. Le scriminanti codificate e le immunità parlamentari
1.1. L’exceptio veritatis
La prima causa di non punibilità codificata è l’exceptio veritatis di cui all’articolo 596 c.p. che consiste nella possibilità di provare la verità o la notorietà del fatto. Tale possibilità è in via di principio esclusa tranne, quando la diffamazione consiste nell’attribuzione di un fatto determinato in tre ipotesi tassative: quando l’offeso sia un pubblico ufficiale e il fatto attenga all’esercizio delle sue funzioni; quando l’offeso sia sottoposto o venga sottoposto a un procedimento penale per il fatto attribuitogli; quando il querelante conceda all’autore della condotta la facoltà di prova, cioè domandi formalmente che il giudizio si estenda all’accertamento sulla verità o falsità del fatto[123]. L’exceptio veritatis, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, ha perduto gran parte della sua portata applicativa, acquisendo un significato sempre più marginale in questo ambito. Con il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero ex articolo 21 Cost., che ha aperto la strada all’affermazione del diritto di cronaca, di critica e di satira, il meccanismo delineato dall’articolo 596 c.p. è stato per lo più superato: riconosciute queste scriminanti, vi è, infatti, carenza di interesse nell’accertare l’eventuale applicazione dell’exceptio veritatis, in quanto quest’ultima ha una sfera di operatività più ristretta. Tale assunto è stato più volte affermato sia dalla Corte di Cassazione[124], che dalla Corte Costituzionale, che ha rilevato come, nel caso in cui al colpevole non sia consentito provare a propria discolpa la verità del fatto attribuito alla persona offesa, il primo comma dell’articolo 596 c.p. non può trovare applicazione se il responsabile della condotta può invocare l’esimente di cui all’articolo 51 c.p.[125]. Solo la terza ipotesi in cui è ammessa l’exceptio veritatis, cioè quando sia lo stesso querelante a farne domanda, essa può trovare applicazione, senza essere assorbita dall’esercizio del diritto, poiché non attinente alla funzione strumentale della stampa.
1.2. L’immunità giudiziaria
La seconda scriminante codificata è contemplata all’articolo 598 c.p. che prevede la non punibilità delle parti e dei loro difensori per gli addebiti offensivi contenuti negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa e nell’ambito di cause e ricorsi presentati da tali soggetti. Fondamento di questa esimente è naturalmente quello di assicurare la libertà di difesa dinnanzi all’autorità giudiziaria e per questo motivo sarà limitata esclusivamente alla dimensione giudiziaria e non a scritti o dichiarazioni delle parti o dei difensori che abbiano diversa destinazione[126]. La Corte di Cassazione ha infatti ritenuto non integrante la fattispecie a norma dell’articolo 598 c.p. nel caso di una lettera pubblicata da un difensore su un quotidiano[127].
1.3. La provocazione
L’ultimo caso di scriminante codificata è la provocazione, prevista dal secondo comma dell’articolo 559 c.p.. Non è punibile il soggetto che ha effettuato l’addebito offensivo in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e nell’immediatezza di questo. La provocazione è anche considerata una circostanza attenuante nella parte generale del codice penale (art. 62, n.2), ma nei delitti contro l’onore assurge al ruolo di causa di esclusione della pena. La ratio della norma è data da considerazioni di ordine psicologico e consiste nel valorizzare il momento di particolare tensione emotiva che insorge nel soggetto che ha subito un’ingiustizia. Quest’ipotesi però, per ovvie ragioni, difficilmente può riscontrarsi nella diffamazione a mezzo stampa, anche se non vi è un’assoluta incompatibilità. La Corte di Cassazione mostra ha, infatti, ammesso che nel caso di addebito di diffamazione al direttore di un giornale, questi non sia punibile se l’offesa da lui arrecata costituisca reazione a una provocazione ingiusta posta in essere dal diffamato ai danni di un giornalista del quotidiano da lui diretto[128].
1.4. Le immunità parlamentari
Vicina alla tematica delle cause di giustificazione nel delitto di diffamazione è la questione dell’insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai membri del Parlamento nell’esercizio della loro funzione ex articolo 68 Cost..
La prassi giudiziaria ha evidenziato, nel corso degli anni, che il riferimento alla suddetta norma costituzionale ha trovato applicazione prevalente con riguardo alle opinioni espresse, più che ai voti dati ed è da questa considerazione che deriva lo stretto nesso con il reato di diffamazione.
Sui confini della tutela costituzionale riservata ai membri del parlamento la giurisprudenza si è divisa in due distinti orientamenti. Secondo una prima tesi, pur risalente, l’applicazione dell’insindacabilità deve essere limitata all’ambito delle funzioni parlamentari in senso stretto, circoscritto cioè al solo ambito materiale istituzionalmente preposto allo svolgimento delle relative funzioni, consistenti negli atti tipici del mandato (presentazione di disegni di legge, interpellanze, interrogazioni) e a esclusione delle attività extraparlamentari svolte all’interno dei partiti, nel corso di comizi, cortei, trasmissioni radiotelevisive o interviste a organi di stampa[129].
Un secondo orientamento giurispudenziale, invece, tende a estendere il più possibile l’ambito di applicazione della guarentigia, ricomprendendo anche ogni attività extraparlamentare causalmente connessa con l’esercizio della funzione parlamentare propriamente intesa. Sono così ricomprese le attività svolte non solo all’interno del Parlamento, ma anche nei convegni, sui giornali, nelle trasmissioni radiotelevisive, in quanto questi mezzi costituiscono un veicolo di confronto politico[130].
La Corte Costituzionale, tenendo presente i fattori di trasformazione della comunicazione politica nella società contemporanea, ha accolto quest’ultima impostazione, ritenendo superato l’orientamento tradizionale. Per la Consulta, infatti, in presenza di uno stringente nesso funzionale tra l’espressione di opinioni e l’esercizio delle funzioni politico parlamentari, sussiste il regime di insindacabilità anche nell’ambito degli atti compiuti al di fuori dei lavori tipici del Parlamento. Questo nesso, però, non può ridursi a un semplice collegamento di argomento tra le dichiarazioni e l’attività parlamentare, ma deve qualificarsi come esercizio, seppur in senso lato dell’attività parlamentare e questo al fine di non trasformare una garanzia riservata all’organo, in un privilegio personale[131].
In questo senso è di recente intervenuto anche il legislatore che, all’articolo 3 comma 1 della la legge 20 giugno 2003, n. 140 contenente le disposizioni di attuazione dell’articolo 68 comma 1 Cost., ha stabilito che la garanzia dell’immunità parlamentare si applica “in ogni caso per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata, per ogni altro atto parlamentare, per ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento”.
Oltre ai membri del Parlamento, un’immunità simile è riconosciuta anche ai consiglieri regionali, ex art. 122 comma 4 Cost., ai giudici della Corte Costituzionale, ex art. 3 comma 2 della l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1, ai membri del Consiglio Superiore della Magistratura, in base all’art. 32bis l. 24 marzo 1958 e infine al Presidente della Repubblica il quale, ex art. 90 Cost., non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni[132].
- 2. Il diritto di cronaca
2.1. Definizione e fondamento
La cronaca può essere definita come narrazione obiettiva di fatti, accadimenti o notizie divulgata con lo strumento della stampa quotidiana o periodica, della trasmissione radiofonica o televisiva o di altri mezzi di comunicazione di massa, con l’unico scopo di informare[133].
Il fondamento del diritto di cronaca[134], non essendo specificatamente garantito in Costituzione, è stato spesso oggetto di riflessione da parte degli interpreti. In un primo momento veniva totalmente negata la copertura costituzionale del diritto di cronaca, caratterizzato dalla mera narrazione di fatti e, quindi, secondo una lettura strettamente formalistica dell’articolo 21 Cost., non ricompreso nella libertà di manifestazione del pensiero, avente a oggetto la libera espressione delle idee[135].
Successivamente, tramite una lettura più estensiva dell’articolo 21 Cost., si è giunti a configurare tale norma sotto un triplice profilo: libertà di informare (e quindi libertà di stampa), libertà di essere informati (o di ricevere informazioni) e libertà di informarsi (o di cercare informazioni). Dalla libertà di informare nasce la libertà di informarsi come libertà di attingere a vari prodotti informativi e da essa, sul lato passivo, si ricava la libertà di ricevere informazioni[136]. Così il diritto di cronaca è stato riconosciuto come un’estrinsecazione della libertà di stampa ed espressione della libertà di manifestazione del pensiero, quest’ultima intesa non solo come esternazione di un’opinione (in tal caso non potrebbe ricomprendere la cronaca), ma anche di ogni produzione intellettuale, rientrando nella categoria dei diritti pubblici soggettivi[137]. La stessa libertà di stampa, del resto, non sembra porsi come funzionalmente autonoma, ma si presenta come una forma strumentale della libertà di manifestazione del pensiero, essendo la stampa solo un mezzo per la sua espressione e diffusione.
Una prospettiva funzionalistica ha poi riconosciuto un significato sociale al diritto di cronaca, tutelato come necessaria garanzia della vita democratica, tale da formare un’opinione pubblica consapevole e vigile. Il diritto di cronaca, secondo tale approccio, è, infatti, attribuito a un soggetto non nel suo interesse, ma come mezzo rispetto al fine di informare gli altri[138]. Diversa interpretazione, invece, riconosce in esso, sulla base del profondo valore da attribuirsi all’articolo 21 Cost., un diritto individualistico proprio della persona umana e solo successivamente anche una libertà funzionale[139].
Per quanto concerne la titolarità dell’esercizio del diritto di cronaca, appare condiviso che esso spetti non solo a chi esercita professionalmente il giornalismo, ma a tutti i cittadini, senza distinzione. La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di stampa non sono, infatti, due diverse libertà dalle quali derivano autonomi diritti, ma costituiscono una stessa libertà nella sua dimensione sostanziale e strumentale, il cui esercizio spetta così indistintamente a tutti[140]. Anche una risalente pronuncia della Corre di Costituzionale ha avvallato questa interpretazione, specificando come la legge sull’ordinamento della professione giornalistica (l. 3 febbraio 1963, n. 69) si limiti a regolare l’esercizio di tale professione, ma non l’uso del giornale, sul quale tutti sono legittimati a scrivere[141].
Il diritto di cronaca, che trova così fondamento nell’articolo 21 Cost. e che perciò spetta a ciascun cittadino, costituisce, secondo unanime dottrina e consolidata giurisprudenza una causa di giustificazione per esercizio del diritto ex articolo 51 c.p.[142].
2.2. I limiti
Bisogna ora analizzare i limiti (o le condizioni) di esercizio del diritto di cronaca. Secondo una giurisprudenza ormai consolidata[143] e pressoché unanime dottrina[144], l’esercizio dello ius narrandi esclude l’antigiuridicità del delitto di diffamazione quando ricorrano i requisiti della corrispondenza tra i fatti accaduti e i fatti narrati (principio della verità), dell’interesse che i fatti narrati rivestono per l’opinione pubblica (principio della pertinenza) e della correttezza nell’esposizione dei fatti (principio della continenza).
2.2.1. La verità
Il requisito della verità della notizia costituisce il limite essenziale del diritto di cronaca e punto focale nel bilanciamento tra la tutela dello ius narrandi, volto alla corretta formazione dell’opinione pubblica, e gli altri valori contrapposti, come la reputazione nel caso di diffamazione.
Parte della dottrina si è spinta fino a ricomprendere nel concetto di verità non solo la cronaca di fatti veri, ma anche di quelli ritenuti soggettivamente tali, utilizzando un’accezione elastica ricomprendente l’obiettività, la semplice verosimiglianza, la verità così come appresa dal giornalista, l’adesione alla rappresentazione fatta da una fonte informativa. Tutto questo per la necessità di adattare il principio della verità al ruolo sociale e politico svolto dalla stampa[145]. Questa dottrina ha trovato riscontro in un ormai risalente indirizzo giurisprudenziale che riteneva sufficiente la sola attendibilità della notizia al momento della pubblicazione o il preventivo accertamento della serietà della fonte d’informazione e il rispetto delle regole di deontologia professionale[146]. Un filone giurisprudenziale, aderente alla teoria delle fonti qualificate di informazione, si è addirittura spinto fino a ritenere sufficiente, per integrare il requisito della verità, che l’indagine provenga appunto da fonti qualificate o addirittura da fonti degne[147].
Degradare la verità a verosimiglianza significa però dare alla stampa un’immunità senza limiti e ammettere una causa di giustificazione, per così dire, gratuita per i fatti più gravi e dannosi per l’onore delle persone, essendo l’affermazione diffamatoria più pericolosa quella presentata con obiettiva verosimiglianza. Al fine di evitare che un interpretazione troppo estensiva del requisito della verità tale da alterare l’equilibrio tra il diritto di cronaca e quello alla reputazione, la recente giurisprudenza si è attestata su una posizione di forte tutela di quest’ultima. La svolta è stata impressa da una sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, la quale ha stabilito che il criterio della verità deve essere adottato nella sua accezione oggettiva, non potendo essere sostituito con la veridicità o la verosimiglianza dei fatti narrati e ponendo al giornalista l’obbligo della rappresentazione fedele degli avvenimenti con esclusione di quelli sedicenti o somiglianti[148]. La cronaca, infatti, non è altro che l’esposizione dei fatti contraddistinta dalla correlazione tra l’oggettivamente narrato e il realmente accaduto e non è ipotizzabile che la libertà di manifestazione del pensiero possa coprire il falso[149].
L’obbligo di rispettare la verità dei fatti viene posto anche dall’Ordinamento della professione di giornalista (l. 3 febbraio 1963, n. 69), contenete le regole di deontologia professionale. L’articolo 2, nel sancire il diritto insopprimibile del giornalista alla libertà d’informazione e di critica, impone i doveri di rispetto della verità sostanziale dei fatti, di lealtà e buona fede[150].
Alcuni aspetti particolari del requisito della verità della notizia, meritano di essere approfonditi. La verità del fatto deve essere intesa in base a una valutazione globale dell’avvenimento narrato, senza escluderla sulla base di mere inesattezze che incidano solo su aspetti marginali o superflui. Certamente, però, potrebbe rilevare la portata diffamatoria di talune circostanze o fatti aggiunti falsi, qualora comportino un autonomo e ulteriore effetto lesivo.
Il requisito della verità potrebbe anche sussistere nell’ipotesi di una prospettazione alternativa di due fatti, dei quali anche uno solo infamante, perché la stessa alternatività nega in maniera implicita il requisito della verità obiettiva, che può essere soltanto una.
Anche la verità incompleta, che si ha nel caso in cui vengano omessi fatti connessi tali da snaturare il significato dell’intera vicenda, non può essere considerata verità sostanziale, ma solo parziale verità e quindi equiparata alla notizia falsa[151].
Un discorso a parte merita la verità putativa. In realtà essa non atterrebbe alle cause di giustificazione, ma all’elemento soggettivo del reato: la sussistenza di una causa di giustificazione sotto il profilo putativo, esclude infatti il dolo. La trattazione verrà effettuata comunque in questa sede per mantenere unitaria l’analisi della verità.
Unanime dottrina ha stabilito che la sussistenza putativa di una causa di giustificazione può concernere solo la verità, dal momento che l’errore sulla pertinenza e sulla continenza presuppongono una valutazione normativa del diritto di cronaca e sono perciò inidonei a escludere il dolo.
Il fondamento normativo della verità putativa è riscontrabile nell’articolo 59 c.p.: se l’agente per errore ritiene che esista la circostanza di esclusione della pena consistente nella verità della notizia, tale da fondare l’esimente del diritto di cronaca, questa è sempre valutata a suo favore.
Una dottrina minoritaria ha ritenuto sufficiente per l’integrazione della verità putativa, la mera convinzione soggettiva del giornalista circa la verosimiglianza o la veridicità della notizia, fino a considerare lecita la cronaca di fatti ritenuti soggettivamente veri[152].
La tesi prevalente, invece, pur ritenendo irrilevanti le valutazioni soggettive dell’agente, valuta in maniera più ampia i confini della verità putativa, dando rilevanza alla verifica della veridicità della notizia o alla particolare attendibilità della fonte da cui la notizia proviene. Due sono, secondo tale dottrina, gli elementi necessari per l’applicabilità dell’articolo 59 c.p.: l’errore deve basarsi su elementi di fatto e non di diritto; la verità soggettiva non può fondarsi su una concezione soggettiva, bensì su una obiettiva sussistenza di circostanze di fatto, tali da fondare l’erronea convinzione di operare in presenza di una causa di giustificazione[153].
La giurisprudenza, nella configurazione della verità putativa, ha determinato dei restrittivi canoni di utilizzo e condizioni, imponendo al giornalista un rigoroso dovere di controllo delle fonti informative. Una celebre pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha, infatti, statuito che dovere del cronista è riferire fatti oggettivamente veri ponendo la massima diligenza e accortezza nella scelta delle fonti, vagliando attentamente sull’attendibilità di esse e operando un minuzioso esame sulle notizie da queste diffuse. In questo modo viene esclusa totalmente la sussistenza i fonti privilegiate o ufficiali che siano di per sé attendibili e tali da non richiedere tali approfonditi esami. Nel caso in cui, espletati questi controlli, permane una differenza tra fatto accaduto e fatto narrato, potrà essere invocato a ragione l’esercizio del diritto di cronaca sotto il suo profilo putativo[154].
In questo modo però, in netto contrasto col dettato normativo e in violazione dell’articolo 25 Cost., la diffamazione viene trasformata in una fattispecie colposa (la c. d. diffamazione colposa). In caso di notizia non vera, infatti, seguendo le argomentazioni delle Sezioni Unite, l’agente avrebbe così l’onere di provare la propria correttezza professionale e la propria diligenza nel controllo delle fonti e delle notizie. Però, anche in base alla disciplina dell’errore colposo di cui all’ultimo comma dell’articolo 59 c.p. dovrebbe affermarsi la non punibilità del giornalista il cui errore sulla verità della notizia sia stato determinato da colpa.
Parte della dottrina considera, invece, la mancata verifica della fonte da parte dell’agente come configurazione del dolo eventuale, integrando in questo modo senza alcun problema l’elemento soggettivo della diffamazione[155].
Nonostante queste critiche della dottrina, la giurisprudenza ha continuato ad affermare, anche di recente, un rigoroso dovere di controllo delle fonti a carico del giornalista[156].
2.2.2. La pertinenza
La seconda condizione che legittima l’esercizio del diritto di cronaca è la pertinenza, intesa come l’interesse pubblico della notizia e quindi l’interesse della comunità a conoscere i fatti oggetto della pubblicazione e alla divulgazione di essi. Questo requisito deriva dalla necessità per la collettività di essere resa edotta dalle varie tematiche tra cui la politica, l’economia, le scienze, le arti e tale conoscenza concorre alla corretta formazione dell’opinione pubblica. Questa utilità sociale dell’informazione è inscindibilmente legata alla verità dell’informazione stessa, in quanto la diffusione di notizie non vere, non solo è inutile, ma è anche di ostacolo alla formazione di una corretta opinione pubblica[157].
Il rilievo sociale della notizia non è un elemento necessario dell’informazione, che può benissimo essere lecita anche al di fuori di esso, ma rileva solo quando è in gioco il bilanciamento con il diritto del singolo a non vedersi compromessa la propria reputazione.
Le notizie caratterizzate dall’interesse pubblico possono essere in primo luogo quelle rilevanti per l’intera collettività nazionale (rilevanza diretta). Al di fuori di questa ipotesi, sono socialmente utili le notizie che, pur interessando solo poche persone, possano assumere un considerevole significato per l’intera collettività, in virtù dell’importanza morale o sociale dell’argomento, in modo che qualsiasi soggetto possa, in quanto informato, fare le proprie scelte in campo politico, religioso, della scienza etc. (rilevanza indiretta)[158]. Un’altra ipotesi di notizia d’interesse pubblico è quella che sia di rilievo per una categoria sociale (sia essa politica, professionale, sindacale, religiosa, etc.) che abbia un’identità tale da superare la sfera strettamente privata, qualificandosi come interesse di natura diffusa.
Una dottrina ormai superata, indicava come quarta condizione del diritto di cronaca, oltre a verità, pertinenza e continenza, anche l’attualità[159]. Oggi invece l’attualità rileva come requisito dell’interesse pubblico, che deve essere presente nel momento in cui il fatto viene divulgato, in quanto un fatto non attuale non è idoneo a rivestire interesse nella comunità. Si vuole così tutelare il soggetto a non restare indeterminatamente esposto ai danni ulteriori che può arrecare alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia che sia stata in passato legittimamente diffusa. Eventi sopravvenuti però potrebbero nuovamente rendere attuali quei fatti, facendo nascere un nuovo interesse pubblico alla divulgazione dell’informazione, oppure la notizia può essere tale da assumere un significato emblematico per la collettività, conservando nel tempo il suo interesse sociale (attualità indiretta)[160].
In applicazione del criterio dell’interesse pubblico, deve ritenersi escluso l’esercizio del diritto di cronaca in tutti i casi in cui l’informazione non abbia un contenuto pertinente alla formazione dell’opinione pubblica, ma sia indirizzata verso un diverso scopo, come quello di soddisfare istinti di curiosità nel pubblico e di fare pettegolezzo. In queste situazioni non può dirsi giustificata la compressione del diritto alla reputazione del singolo. L’interesse pubblico non deve confondersi con l’interesse del pubblico, in quanto in quest’ultimo caso si può incappare in forme di curiosità malsana e futile[161].
Un profilo interessante è quello che riguarda l’individuazione dei limiti alla divulgazione delle altrui vicende personali, questione che s’inquadra nell’ambito del diritto del singolo a non subire invasioni nella propria sfera privata. Il diritto alla riservatezza delle vicende private trova un fondamento normativo sia a livello costituzionale ex articoli 2 e 3 Cost., oltre che in base agli articoli 14 e 15 Cost. (libertà del domicilio e libertà e segretezza della corrispondenza), sia a livello extranazionale, in base all’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo[162] (ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848), nel quale la Corte Costituzionale ha rinvenuto il fondamento di tale diritto[163]. Il rispetto della vita privata si pone così come un vero e proprio limite logico sia alla cronaca, che alla critica, senza per altro rivestire i caratteri dell’assolutezza[164].
Una deroga a tale principio è configurata, ma con alcune precisazioni, nell’ipotesi in cui il soggetto della notizia sia un personaggio pubblico, cioè una persona nota in campo politico, artistico, dello spettacolo o, in generale, mondano. E’ comunque estranea all’esercizio del diritto di cronaca la diffusione di notizie che vadano a ledere il diritto alla riservatezza del singolo, pur se personaggio pubblico, in assenza di connotazioni del fatto che contribuiscano a delineare la sua personalità pubblica. Sono, quindi, privi di interesse pubblico quei fatti che non siano direttamente collegati alla ragione della notorietà o, in ogni caso, quelli afferenti alla sfera intima e alla vita privata, personale e familiare del soggetto[165]. La Corte di Cassazione ha però affermato che l’esistenza di un interesse sociale alla conoscenza della notizia riportante fatti privati può sussistere quando, per modalità, cause, scopi o condizioni, questi possano concorrere a creare un corretto orientamento dell’opinione pubblica[166]. Così, sulla base del principio della rilevanza politico sociale del fatto, l’esercizio del diritto di cronaca può essere tanto più penetrante quanto più elevata sia la posizione pubblica del soggetto nelle istituzioni, nel campo politico, economico e professionale. In particolare, con riferimento a uomini politici o a pubblici amministratori, la dottrina sostiene che le vicende private di tali categorie di individui possano essere di interesse pubblico, in quanto idonee a fornire elementi obiettivi di valutazione sull’adeguatezza etica e sulle capacità del soggetto ad amministrare[167].
2.2.3. La continenza
Il terzo e ultimo requisito necessario per un legittimo esercizio dello ius narrandi è la continenza, inteso come moderazione, proporzione e misura delle modalità espositive della notizia[168]. Questa condizione può essere immediatamente ricondotta alla stessa ratio del diritto di cronaca, in base al quale è consentito un sacrificio di un altro diritto di pari dignità, quale è la reputazione, esclusivamente all’interno dei limiti in cui sia strettamente necessario per la realizzazione del diritto di informare l’opinione pubblica. Perché questo bilanciamento di interessi sia rispettato, la forma e il modo di rappresentazione del fatto non deve eccedere la funzione di divulgazione della notizia. La valutazione della continenza non si limita, però, al solo testo letterale, ma si estende al complesso del mezzo informativo, comprensivo anche del titolo, delle immagini delle illazioni, del contorno e quindi del modo complessivo di presentazione della notizia[169]. Sono pertanto pacificamente escluse tutte le modalità espositive che non siano ispirate dalla correttezza dell’espressione, essendo superfluamente diffamatorie, inutilmente aggressive, o che presentino la notizia in maniera tale da ledere la reputazione. Sono, invece, tollerati e non considerati offensivi i toni aspri e polemici che rientrino nel costume corrente, sempre che presentino i fatti in forma civile, secondo i canoni di obiettività e chiarezza e che siano funzionalmente essenziali alla rappresentazione della notizia e al suo commento. I caratteri fondamentali per integrare il requisito della continenza sono stati poi rinvenuti dalla giurisprudenza nella serenità e obiettività, i fatti devono quindi essere riportati con imparzialità e senza inutili personalismi; è senza dubbio ritenuta un’informazione né serena né obiettiva quella che funge da occasione o pretesto per colpire avversari politici o portatori di idee o valori diversi o contrari dai propri, in quanto la notizia, in questo caso, si configura unicamente come mezzo di mera aggressione della reputazione altrui[170].
Un passo fondamentale in tema di continenza è stato poi segnato da una sentenza della Cassazione Civile che ha indicato, in una sorta di “decalogo dei giornalisti”, utili criteri per individuare la forma lecita dell’esposizione dei fatti, mettendo al bando alcuni espedienti che possono compromettere la leale chiarezza a cui deve essere improntata l’informazione[171]. Devono essere esclusi: a) il “sottointeso sapiente”, cioè l’uso di espressioni tali da far percepire al lettore un messaggio diverso o contrario a quello apparentemente letterale; b) il tono “sproporzionatamente scandalizzato o sdegnato” o “artificiosamente drammatizzato”, tramite l’uso di aggettivi (come per esempio notevole, strano, non chiaro) o anche punteggiatura tale da suggestionare il lettore (un punto esclamativo); c) gli “accostamenti suggestionanti” di fatti riferiti al soggetto che si vuol mettere in cattiva luce, con altri fatti riferiti, naturalmente lesivi della reputazione, concernenti terze persone; d) le “vere e proprie insinuazioni” e le “ambiguità allusive”che si hanno quando il discorso viene articolato in modo tale che il lettore, pur in assenza di esposizione di fatti o di giudizi espliciti, li prenda egualmente in considerazione in danno a un soggetto (tipico esempio di insinuazione è l’asserzione “non si può escludere che”).
A riprova del fatto che la reputazione sia un concetto suscettibile di mutazione nel tempo, una recente sentenza della Cassazione ha considerato rientranti nel requisito di continenza e ha quindi ritenuto legittima l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca in merito a espressioni quali “arraffare il più possibile” e “fregandosene del resto”. La Suprema Corte infatti, pur considerando di per sé offensivi tali termini, ha ritenuto non violato il limite della continenza, tenuto conto della perdita di carica offensiva di alcune espressioni nel contesto politico in cui sono soliti toni aspri e vibrati[172].
E’ controverso se l’uso di espressioni dubitative o la prospettazione alternativa di due fatti di cui solo uno infamante, violi il limite della continenza o della verità. La dottrina ha risolto la questione rilevando la violazione del requisito della continenza esclusivamente quando, la modalità espressiva fa assumere alla narrazione la forma dell’insinuazione[173].
2.2.4. I limiti e il titolo dell’articolo
Un aspetto peculiare è quello relativo alla potenzialità lesiva del titolo dell’articolo. E’ innanzitutto tesi consolidata che la natura diffamatoria della notizia possa risultare dal solo titolo, indipendentemente dal riscontro nel corpo dello stesso, qualora si travisi o amplifichi un testo veritiero[174]. Così, l’obbligo di rispettare verità, pertinenza e continenza sussiste anche con riferimento al titolo, specie se suggestivo, data la sua potenzialità di attrarre un maggior numero di lettori per la grandezza dei caratteri o la posizione all’interno del giornale.
La lesione della reputazione di un soggetto può anche derivare da un titolo il quale, pur facendo riferimento a episodi veritieri, li ricolleghi a un soggetto in modo alterato, deformato o sproporzionato, violando la continenza. Se invece il titolo è generico, la valutazione della sua diffamatorietà deve essere compiuta tramite l’esame del contenuto dell’articolo. Per valutare il danno alla reputazione del soggetto passivo, andrà anche considerato il risultato tipografico complessivo del titolo, in quanto sia, per esempio, collocato in prima pagina oppure sia scritto a caratteri cubitali.
Tuttavia bisogna precisare come, in linea generale, il giornalista che ha redatto il pezzo può essere ritenuto responsabile esclusivamente del testo redatto, ma non del titolo, dell’”occhiello” (frase opzionale posta al di sopra del titolo e che fornisce generalmente una breve introduzione alla notizia), del “sommario” (frase posta sotto il titolo che solitamente chiarisce e aggiunge qualche dettaglio) e del “catenaccio” (frase solitamente in grassetto che dà rilievo a un particolare della notizia e anticipa il testo dell’articolo) e neppure nel caso in cui non sia l’articolo in sé ad avere carattere diffamatorio, ma il complesso dell’informazione con i titoli che l’accompagnano, le fotografie e la collocazione in pagina. In tali casi sarà il diverso giornalista (sia esso il redattore, il caposervizio, il direttore) che abbia materialmente scritto il titolo o composto la pagina di giornale.
2.3. L’intervista
E’ di particolare interesse vedere come si atteggia il diritto di cronaca nel caso dell’intervista, tipica espressione dell’esercizio della professione giornalistica, consistente nella diffusione di notizie od opinioni tramite la narrazione di altra persona, nota o meno al pubblico, sollecitata dalle domande fatte dal giornalista. Mentre la notizia di cronaca consiste nel riportare un determinato fatto storico, l’intervista ha il fine di rendere pubblico un fatto o un’opinione così come raccontati dal soggetto intervistato[175].
Sul tema in questione si sono formati in passato due diversi orientamenti giurisprudenziali. Secondo il primo e più restrittivo, la pubblicazione di dichiarazioni o di scritti di terzi, lesivi della reputazione altrui costituisce veicolo di diffusione della diffamazione, alla quale il giornalista partecipa con apporto causale determinante rispondendone a titolo di concorso. Il mezzo della stampa opererebbe infatti come cassa di risonanza dell’altrui condotta diffamatoria ed è quindi necessario in ogni caso l’esame dei requisiti di verità, pertinenza e continenza. Nell’intervista, la fonte informativa è proprio l’intervistato e il giornalista ha così l’obbligo di controllare l’attendibilità della persona e il contenuto della dichiarazione, sembrando ingiustificato ritenere che, nel pubblicare un’intervista, il giornalista possa incontrare limiti più elastici rispetto a quelli che è tenuto a osservare per ogni altro tipo di notizia[176]. In particolare, il requisito della verità deve riguardare non l’avvenuta affermazione di un soggetto relativa a un fatto, ma il fatto storico oggetto dell’intervista, non essendo configurabile alcun pubblico interesse alla conoscenza del fatto costituito dalle domande poste da un giornalista e dalle risposte fornite dall’interessato[177].
Un secondo orientamento riteneva invece configurabile l’esimente putativa dell’esercizio del diritto di cronaca in capo al giornalista nel caso in cui la notizia fosse costituita non solo e non tanto dal contenuto delle dichiarazioni rese dall’intervistato, quanto alla qualità di questi, idonea a creare particolare affidamento sulla veridicità delle sue affermazioni. Tale orientamento si prestava in particolare alla contesa politica, nella quale maggiore è l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti e nell’ambito del quale la notizia veniva ritenuta vera quando risultasse in maniera in maniera incontrovertibile che l’intervistato abbia effettivamente proferito la frase incriminata e riportata dal giornalista opportunamente virgolettata[178].
Su questo contrasto è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2001, affermando che l’aver riportato alla lettera il contenuto dell’intervista non integra di per sé la scriminante del diritto di cronaca. Il giornalista che abbia assunto una posizione imparziale può però invocare legittimamente l’esimente quando il fatto dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti (per esempio per le rilevanti cariche pubbliche ricoperte o per la loro indiscussa notorietà all’interno di un determinato ambiente), presenti profili di interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo[179].
Bisogna poi aggiungere che colui che rilascia l’intervista concorre sempre nel reato di diffamazione a mezzo stampa, anche nel caso in cui non abbia prestato un espresso consenso alla pubblicazione, in quanto la stessa concessione dell’intervista presuppone il consenso alla diffusione delle notizie fornite all’intervistatore[180].
Quanto fin qui rilevato si applica anche all’intervista radiofonica e televisiva, con l’eccezione dell’intervista trasmessa in diretta. L’immediata diffusione della trasmissione impedisce, infatti, ogni filtro da parte di chi conduce il programma e che solitamente ignora le dichiarazioni che l’intervistato renderà. Il conduttore della trasmissione non fornisce alcun contributo causale alla diffusione della condotta lesiva in quanto la trasmissione costituisce la mera occasione del fatto di reato, non essendo ipotizzabile la teoria della cassa di risonanza[181]. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha accolto questo orientamento dottrinale, sostenendo che non si può esigere nei confronti del conduttore della trasmissione un controllo su quanto questi non ancora conosce. In questo caso, però l giornalista dovrà osservare la diligenza “in eligendo”, nel senso che nella scelta del soggetto che sarà intervistato questi deve adottare, nei limiti del diritto-dovere di informare, la cautela preordinata a evitare di dare la parola coloro che prevedibilmente ne approfittino per commettere reati, fermo restando l’obbligo di intervenire, se possibile, nel corso dell’intervista (chiarendo, chiedendo precisazioni etc.), ove si renda conto che il dichiarante ecceda i limiti della continenza o sconfini in settori privi di rilevanza sociale[182].
2.4. La cronaca giudiziaria
Tra le varie esplicazioni del diritto di cronaca (politica, sindacale, artistica, scientifica, etc.), di particolare interesse e rilevanza è la cronaca giudiziaria in materia penale, attinente cioè alle vicende procedimentali e processuali che riguardano l’accertamento dei fatti che costituiscono reato. In questo ambito è in gioco il bilanciamento tra l’interesse della collettività a essere informata in merito all’amministrazione della giustizia penale e i diritti alla riservatezza, all’onore e anche alla presunzione di non colpevolezza ex articolo 27 Cost., comma 2. Tale norma, infatti, non solo vieta affermazioni anticipatorie della condanna o pregiudizievoli della posizione dell’indagato o dell’imputato, ma lo tutela anche da ogni asserzione che possa accreditarlo come colpevole prima dell’accertamento processuale definitivo. Ma il diritto di cronaca non soccombe nemmeno di fronte alla presunzione di non colpevolezza, risultando preminente l’interesse pubblico alla conoscenza di fatti di ampio rilievo sociale, in quanto non vi è ragione per tutelare la reputazione della persona sottoposta a indagini preliminari o dell’imputato in maniera maggiore rispetto ad altri soggetti.
La cronaca giudiziaria penale è quindi legittima quando rispetti i tre requisiti della verità, della pertinenza e della continenza anche se, in virtù dei delicati interessi costituzionali in gioco, essi vanno intesi secondo un’interpretazione più rigorosa poiché il sacrificio del diritto alla presunzione di non colpevolezza non deve spingersi al di là di quanto è strettamente necessario ai fini informativi[183].
Partendo dal limite della verità, è richiesta un intensa corrispondenza tra il narrato e il realmente accaduto. E’ così considerata diffamatoria la pubblicazione di una formula di proscioglimento inesatta e meno favorevole al soggetto, come l’esempio della pubblicazione del proscioglimento per amnistia, quando invece è stata pronunciata assoluzione per insussistenza del reato. E’ egualmente considerata diffamatoria, in quanto estranea allo ius narrandi, la pubblicazione della condanna a una pena di maggior gravità, in quanto contenente un giudizio di maggior disvalore a danno del soggetto[184]. La Cassazione ha stabilito che, al fine di verificare che sia stato rispettato il limite della verità, bisogna accertarsi che l’apprezzamento sia stato effettuato sulla base di quanto può risultare nel momento della pubblicazione della notizia e non secondo quanto venga successivamente accertato, inquadrando la fattispecie sotto il profilo della verità putativa[185]. Non può, però, considerarsi compresa nel diritto di cronaca la pubblicazione non veritiera di un avvenuto rinvio a giudizio, anche se tale provvedimento sia effettivamente preso dall’autorità giudiziaria in un secondo tempo, data la natura istantanea del reato di diffamazione e all’irrilevanza degli elementi successivi. E’ infatti vietato al cronista fondare la propria attività su illazioni provenienti da ambienti giudiziari e anticipare così il contenuto di provvedimenti del giudice o del pubblico ministero o attribuire a essi una valenza più grande del reale[186].
Anche nel caso in cui venga riportato da un giornalista un fatto emergente dal processo come realmente accaduto, questi ha il dovere di effettuare i necessari controlli sulla verità di esso[187]. Una recente decisione della Corte di Cassazione ha stabilito che tali obblighi di controllo sulla verità del fatto sorgono, a capo del giornalista, anche quando non si limita a riferire o a commentare l’attività investigativa o giurisdizionale, ma utilizza le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario per effettuare ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti[188].
Per quanto riguarda la pertinenza, pur ritenendosi sussistente, in via di principio, l’interesse pubblico della collettività alla conoscenza della commissione di reati e dei relativi casi giudiziari, non può parlarsi di una presunzione assoluta di interesse pubblico per ogni vicenda processuale, dovendosi effettuare una verifica caso per caso, secondo la regola generale del diritto di cronaca.
E’ legittima, sempre nei limiti dell’interesse pubblico, la divulgazione di avvenimenti giudiziari relativi anche a soggetti diversi dall’imputato o dall’indagato, purché si tratti di fatti oggetto di indagini o comunque collegati a quelli e la narrazione sia funzionale all’esercizio del diritto di cronaca.
Un sostegno autorevole alla posizione che richiede un controllo particolarmente penetrante nei casi di cronaca giudiziaria è stato apportato dalla Corte Costituzionale la quale, con riguardo a una questione di legittimità costituzionale dell’articolo 164 n. 1 dell’abrogato codice di procedura penale e dell’articolo 684 c.p., ha rilevato come nel corso delle indagini preliminari, deve essere prioritariamente tutelata la reputazione delle parti processuali, in quanto la diffusione delle notizie, caratterizzata da frammentarietà, incertezza e mancanza di adeguato controllo, si pone irrimediabilmente in contrasto con la presunzione di non colpevolezza. Nella fase dibattimentale, invece, tali interessi possono soccombere ad altri, come, per esempio, all’esigenza della pubblicità a garanzia della giustizia[189].
Più di recente la giurisprudenza ha anche precisato che non è possibile presentare come cronaca giudiziaria la diffusione di notizie che, pur desunte da atti giudiziari, non hanno alcuna rilevanza specifica nell’ambito del procedimento dal quale sono state acquisite, in quanto attinenti profili personali e privati della vita dell’imputato e dei testimoni o perché costituiscono fatti aggiunti ad altri già accertati. In questo caso, il giornalista che volesse comunque pubblicare dette informazioni, dovrebbe provvedere ai necessari controlli sulla pubblica rilevanza di esse[190].
Trattando poi del requisito della continenza, va innanzitutto rilevato che il limite della forma espositiva deve rispettare, in base alla presunzione di non colpevolezza, il principio della non definitività del provvedimento. Pertanto ogni notizia che attribuisca un reato a un soggetto prima della condanna deve avere un contenuto e una forma tale da avvertire i lettori che la colpevolezza non può ancora considerarsi come fatto certo, dovendo quindi evitare il riferimento a quei particolari non ancora sicuramente accertati. Il cronista dovrà così evitare di enunciare verità certe, ma rappresentare i fatti in chiave di problematicità.
Le soluzioni giurisprudenziali sul tema della continenza non sono però univoche. Una sentenza del Tribunale di Livorno ha infatti affermato che integra il reato di diffamazione a mezzo stampa la qualificazione di “banditi” rivolta a due soggetti sottoposti ad arresto[191], mentre la Corte d’Appello di Roma ha ritenuta lecita la cronaca che usi i termini “assassino” e “gangster”, in quanto, benché di per sé offensivi, sono stati ritenuti aderenti al fatto storico in questione[192].
Va ora brevemente analizzata la disciplina di alcune norme del codice di procedura penale, attinenti alla diffusione di atti del giudizio. Innanzitutto l’articolo 114 c.p.p. prevede che è sempre consentita la pubblicazione di atti che non siano coperti dal segreto (comma 7), prevedendo una serie di ipotesi in cui la diffusione degli atti è vietata: quando essi sono coperti da segreto (pubblicazione vietata, anche parziale o per riassunto o recante solo il contenuto); quando non siano ancora concluse le indagini preliminari o fino al termine dell’udienza preliminare per gli atti non più coperti da segreto; quando si procede al dibattimento, degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento prima della sentenza di primo grado e degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero prima della sentenza in grado d’appello, pur essendo sempre consentita la pubblicazione di atti usati per le contestazioni; quando il dibattimento è celebrato a porte chiuse; quando il giudice, nel caso non si sia proceduto al dibattimento, dispone il divieto di pubblicazione di atti che offendono il buon costume o diffondono notizie coperte da segreto di Stato o possano causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni o delle parti; quando si tratti di immagini o indicazioni tali da identificare un soggetto minorenne; quando si tratta di immagini di persona privata della libertà personale sottoposta a coercizione fisica. L’articolo 329 c.p.p. stabilisce poi che gli atti d’indagine sono coperti da segreto (e perciò ne è vietata la pubblicazione) fino al momento in cui l’imputato viene a conoscenza degli stessi e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari, ma, in caso di necessità, il pubblico ministero può disporre l’obbligo del segreto su singoli atti o il divieto di pubblicazione.
Il cronista giudiziario è quindi sempre tenuto all’osservanza di questi due articoli, la cui violazione è fonte di responsabilità disciplinare ai sensi dell’articolo 115 c.p.p., 1° comma e può integrare gli estremi della contravvenzione di cui all’articolo 684 c.p. che punisce con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da lire centomila a lire cinquecentomila chi pubblica, anche per riassunto o per scopo di informazione, atti o documenti di un procedimento penale di cui sia vietata la pubblicazione. Se da un lato è pacifico che il divieto di pubblicazione desunto all’articolo 329 c.p.p. sia a garanzia della segretezza delle indagini e non a tutela della reputazione dei soggetti indagati, è dibattuta in dottrina la ratio dell’articolo 114 c.p.p.. Secondo un primo orientamento anche l’articolo 114 c.p.p. ha come scopo la tutela delle indagini in corso[193], mentre una diversa interpretazione circoscrive la tutela del segreto investigativo al solo articolo 329 c.p.p., ma si ispirano alla tutela dell’onore delle persone sottoposte alle indagini (o degli altri soggetti a cui gli atti sono riferiti) che potrebbe essere leso dalla divulgazione di tali atti o notizie[194].
In prospettiva de iure condendo, verranno brevemente accennate alcune modifiche di alcuni particolari aspetti della disciplina dell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria contenute nel disegno di legge presentato dal guardasigilli Alfano alla Camera dei deputati il 30 giugno 2008 (doc. n. 1415-A “Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali”), approvato, a seguito di numerosi emendamenti, l’11 giugno 2009 e ora all’esame del Senato. Lo scopo principale di questo disegno di legge era stato fornito dall’aspirazione a introdurre adeguati correttivi e irrigidimenti nella disciplina concernente i divieti di pubblicazione dei risultati delle intercettazioni, per evitare il ripetersi di alcuni abusi verificatisi troppo di frequente negli ultimi tempi con la pubblicazione integrale di verbali di conversazioni intercettate, spesso del tutto irrilevanti per le indagini, e qualche volta addirittura ancora coperte da segreto[195]. Tale disegno di legge prevede una modifica del secondo comma dell’articolo 114 c.p.p., introducendo un rigido e indifferenziato regime di divieto assoluto (è anche vietata quindi la pubblicazione parziale, per riassunto o del solo contenuto) di pubblicazione di tutti gli atti di indagine preliminare anche se ormai non più coperti da segreto fino alla chiusura delle indagini o al termine dell’udienza preliminare. Viene così equiparata la disciplina contenuta nel primo comma dell’articolo 114 c.p.p. relativa agli atti coperti da segreto a quelli che non lo sono più, ponendo in questo modo un forte limite al diritto di cronaca giudiziaria. Un altro sbarramento all’esercizio del diritto di cronaca è stato posto in un emendamento che sancisce il divieto di pubblicazione dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai processi penali a loro affidati. Inoltre è disposto il divieto di pubblicazione dei risultati delle intercettazioni di cui sia stata ordinata dal giudice la distruzione a norma degli articoli 269 e 271 c.p.p., e di quelle riguardanti fatti, circostanze e persone estranee alle indagini, di cui sia stata disposta l’espunzione ai sensi dell’articolo 268, comma 7-bis del medesimo testo. Il divieto dovrebbe quindi riferirsi sia ai risultati delle intercettazioni di cui sia stata esclusa l’acquisizione e quindi vietata la trascrizione per la totale irrilevanza rispetto alle indagini, sia ai risultati delle intercettazioni acquisite e pertanto oggetto di successiva trascrizione, prima che dalle stesse siano stati espunti i nomi e gli elementi identificativi di soggetti estranei alle indagini. Nell’ipotesi di inosservanza di tali divieti è così previsto un severo meccanismo sanzionatorio che punisce, salvo costituisca più grave reato, chiunque pubblichi intercettazioni in violazione dei divieti accennati con la reclusione da tre mesi a tre anni[196].
Va trattata, infine, la disciplina attinente alla cronaca giudiziaria civile, la quale richiede sempre l’accertamento dei tre requisiti fondamentali di verità, pertinenza e continenza. Un aspetto particolare riveste il limite dell’interesse sociale: mentre, infatti, esso è usualmente presente nella cronaca giudiziaria penale, per la cronaca giudiziaria civile, essendo questa relativa a controversie private, vale una sorta di presunzione contraria. Non è infatti sufficiente la sedes pubblica dove viene trattato un fatto ad attribuire a esso un pubblico interesse, che deve quindi essere verificato di volta in volta sulla base dei criteri generali. E’ così stata formulata in dottrina una duplice regola secondo la quale, da un lato, la pertinenza nelle controversie private è limitata alle fattispecie nelle quali la vicenda sia esemplare di situazioni tipiche o sintomatiche di fenomeni socialmente rilevanti, dall’altro, il nome delle parti che possono vedere lesa la propria reputazione, può essere divulgato al pubblico esclusivamente quando acquisti un particolare significato nell’ottica della vicenda. Non è così coperta dal diritto di cronaca la narrazione di una lite civile priva di risvolti di rilievo collettivo e tale da soddisfare unicamente la curiosità dei lettori a conoscere le vicende private altrui, in quanto rivolgersi all’autorità giudiziaria non significa esporre le proprie vicende a una platea potenzialmente indifferenziata di persone. E’ da escludere, inoltre, che a radicare il pubblico interesse sia sufficiente la dimensione pubblica dei soggetti coinvolti, in quanto l’esimente del diritto di cronaca trova il suo fondamento nella formazione di un opinione pubblica cosciente, scopo non realizzabile nella pubblicazione di vicende private[197].
3. Il diritto di critica
3.1. Definizione e distinzione dal diritto di cronaca
Il secondo aspetto della libertà di manifestazione del pensiero, oltre allo ius narrandi, è il diritto di critica, il cui esercizio è anch’esso causa di giustificazione ex articolo 51 c.p. del reato di diffamazione. Cronaca e critica, pur essendo attività strettamente legate, entrambe afferenti ad accadimenti di pubblico interesse e ai soggetti coinvolti, sono intrinsecamente e funzionalmente diverse. Mentre la cronaca deve essere fondata sulla più scrupolosa obiettività nella narrazione dei fatti, dato il suo scopo di informare il lettore, la critica consiste in un’attività valutativa e di giudizio rispetto alle opinioni e alle condotte altrui, configurandosi come un’analisi di eventi, comportamenti, fenomeni dei più vasti settori della vita, allo scopo di apprezzarne l’intimo significato e le conseguenze a questi riconducibili[198]. Sulla distinzione tra i due diversi diritti si è espressa anche la Corte di Cassazione che ha affermato che la critica, non fondandosi sulla narrazione di eventi, ma sull’espressione di un giudizio, non può che essere fondata su una interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti[199]. La dottrina ha così distino la critica teoretica, che prescinde da fatti o persone, ma si estende a ideologie, opinioni politiche o artistiche, ai prodotti dell’ingegno e alle istituzioni per valutarne valore o disvalore[200], dalla critica fattuale, che accompagna l’esposizione del fatto, il quale si atteggia a mera occasione per l’espressione dell’opinione dell’autore o del quale viene chiarito significato o portata in posizione funzionale[201]. Sotto il profilo dell’idoneità della critica a ledere la reputazione, è emerso un orientamento dottrinale che configura una partizione tra la critica alle attività o alle opere del soggetto e la critica alla persona. Mentre quest’ultima può senza dubbio integrare in astratto il delitto di diffamazione, la prima, essendo estranea ad apprezzamenti rivolti direttamente in capo al soggetto, non può configurare la fattispecie di cui all’articolo 595 c.p.[202]. Diversa dottrina ha invece sostenuto che la valutazione sociale di un individuo non si pone unicamente come il risultato delle sue doti morali, ma soprattutto dei suoi comportamenti, potendo così configurarsi il reato di diffamazione anche nel caso di lesione della reputazione del soggetto tramite aggressione rivolta verso la sua condotta[203].
3.2. Fondamento
In dottrina sono emerse varie e diverse teorie in merito all’individuazione del fondamento del diritto di critica.
Una tesi minoritaria nega il fondamento costituzionale al diritto di cronaca, sostenendo, in base a una fictio iuris, che sia la critica politica che quella storica e artistica troverebbero la fonte della loro scriminante nel consenso presunto di chi esercita un’attività di pubblico rilievo; tale consenso sarebbe così da considerarsi implicito nel momento in cui tali soggetti espongano se stessi o la propria attività alla valutazione dell’opinione pubblica, trovando applicazione la causa di giustificazione di cui all’articolo 50 c.p. e non quella ex articolo 51 c.p.[204]. Per trovare il fondamento del diritto di cronaca, non basta però rifarsi alla libertà di manifestazione del pensiero, in quanto, così facendo, si rischierebbe di non cogliere le peculiarità del diritto di critica rispetto a quello di cronaca.
La dottrina pressoché unanime e la consolidata giurisprudenza hanno individuato il fondamento del diritto di critica, in maniera analoga allo ius narrandi, nella libertà di manifestazione del pensiero di cui all’articolo 21 Cost.[205].
Un altro appiglio normativo può essere riscontrato nell’articolo 3 Cost. che, sancendo il divieto di discriminazione in ragione delle opinioni politiche e religiose, fa ricavare a contrario che le diverse opinioni e idee, così come i soggetti che le professano, godono di eguale dignità sociale. Inoltre, il combinato degli articoli 17, 18 e 49 Cost., contemplando la libertà di riunione e associazione evocano un complesso di situazioni soggettive tra le quali si collocano quelle riconducibili alla libera manifestazione del pensiero, tra cui quella di critica, coessenziali alle attività di propaganda e proselitismo. Vengono poi a sostegno del diritto di critica anche le norme che garantiscono la libertà dell’organizzazione sindacale (art. 39 Cost.), la libertà di coscienza e di culto (art. 19 Cost.) la libertà di scienza e di creazione artistica (art. 33 Cost.)[206]. Oltre che da questo insieme di norme costituzionali, la base del diritto di cronaca è tracciata anche dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che sancisce la libertà di opinione e di comunicazione di idee di ogni persona che non può subire ingerenze da parte dell’autorità pubblica[207]. Così come rilevato rispetto al diritto di cronaca, anche per il diritto di critica bisogna escludere qualsiasi profilo funzionalistico, che non può essere ricavato in alcun modo dal dettato costituzionale. Non mancano però in giurisprudenza impostazioni che fondano la prevalenza di tale diritto, rispetto alla tutela della reputazione del singolo, sulla necessità di consentire la realizzazione della dialettica democratica[208].
3.3. I limiti
Dottrina e giurisprudenza concordano nell’estendere i limiti della verità, della pertinenza e della continenza, propri dello ius narrandi, al diritto di critica, anche se devono essere fatte alcune precisazioni[209].
Per quanto riguarda il requisito della verità, esso mal si concilia con l’espressione di un’opinione, che non è idonea a essere accertata come vera o falsa, ma semmai come infondata o infondata, persuasiva o non persuasiva. A questo risultato è giunta sia la Corte europea dei diritti dell’uomo, affermando che un’opinione, per sua natura, non si presta a una dimostrazione di veridicità[210], sia la Corte di Cassazione, che ha sostenuto che un’opinione non può pretendersi rigorosamente obiettiva, dato che la critica è fondata su un’interpretazione soggettiva e perciò non si deve valutare la veridicità delle affermazioni offensive[211]. L’accertamento della verità deve semmai essere effettuato quando la critica trae spunto dalla rappresentazione di un fatto storico. Qualora tale fatto sia idoneo ad aggredire la reputazione di un soggetto, esso deve rispettare il limite della verità. In questo modo, però, l’indagine non attiene più alla critica, bensì alla cronaca, in quanto relativo alla rappresentazione di un fatto e non a un giudizio o a un’opinione. E’ perciò ritenuto pacifico che il requisito della verità esuli dai limite del diritto di critica, ma, semmai, può basarsi sulla connessione tra le due attività[212]. Però la distinzione tra i due diritti è più che altro schematica, in quanto nella pratica l’esposizione di fatti determinati (cronaca) è molto di frequente resa insieme alle opinioni (critica); in questo caso, quando uno scritto contiene fatti e opinioni tali da costituire al contempo esercizio del diritto di cronaca e di critica, è in relazione a ciascun contenuto espressivo che vanno applicati i corrispondenti limiti scriminanti, a meno che lo scritto, valutato nel suo complesso, sia prevalentemente e significativamente ascrivibile a uno soltanto dei due diritti[213].
Relativamente al requisito della pertinenza si rimanda a quanto trattato in tema di ius narrandi con un’importante precisazione: l’interesse sociale è una caratteristica che si richiede abbiano l’interpretazione e il commento e non anche, necessariamente, la notizia sottostante, in quanto, altrimenti, non si coglierebbe la differenza tra diritto di cronaca e di critica[214].
Infine va analizzato il limite della continenza. Per il carattere di dissenso motivato e di contrapposizione di idee, al diritto di critica viene concessa una maggiore libertà dialettica, rispetto allo ius narrandi, ma è comunque necessaria una verifica caso per caso che i termini siano corretti e misurati e non assumano toni gravemente lesivi dell’altrui dignità morale e professionale. E’ perciò richiesta la correttezza del linguaggio, l’assenza di toni sarcastici, denigratori o di derisione. Non sono altresì ammesse le espressioni inutilmente o eccessivamente lesive e le valutazioni faziose quando, rispetto al fine che si vuole conseguire, sarebbero risultate sufficienti affermazioni dotate di minor efficacia lesiva[215]. La motivazione non è, invece, considerata un requisito del diritto di cronaca. Quando essa vi sia, è escluso che si possa valutarla nel merito, altrimenti verrebbe attribuito al giudice il potere di sindacare il pensiero di un soggetto; ma il legislatore nell’articolo 21 Cost. ha riconosciuto una tutela anche all’opinione “nuda”, priva cioè della motivazione, sillogismo che ha la funzione di verificare il giudizio[216].
3.4. La critica in settori specifici
E’ interessante a questo punto sono analizzare alcune regole specifiche che contraddistinguono la disciplina di alcuni settori di critica specifici e di particolare importanza e rilevanza e che si differenziano dalla disciplina generale.
3.4.1. La critica politica e sindacale
L’ambito della vita pubblica che più degli altri interessa gli organi d’informazione e in cui i toni sono fisiologicamente più accesi e aspri corrisponde all’attività politica. All’interno degli ordinamenti democratici, infatti, deve essere garantita la formazione delle decisioni secondo il modo dialettico e conflittuale e viene così giustificata una più accesa tensione polemica caratterizzata da espressioni forti e spesso animose. Si configura, per così dire, un livello superiore di critica nell’ambito della lotta politica: in esso i protagonisti, che sono uomini pubblici, dati i toni aspri e animosi, sono giunti a una sorta di assuefazione reciproca ai veleni corrispondenti con le varie lesioni al proprio onore[217]. Questo soprattutto in concomitanza con le competizioni elettorali, nelle quali lo scontro porta a una forma di desensibilizzazione del significato offensivo di taluni termini, cosicché il metro di valutazione deve adeguarsi al particolare contesto[218]. Quindi, di fronte a un preponderante rilievo dell’interesse pubblico a garantire l’effettività del dibattito politico tra tutti i consociati, al fine di assicurare la più limpida trasparenza dei processi di formazione e delle decisioni adottate nella gestione della res publica, viene legittimata un’ampia dilatazione del requisito della continenza. Ne consegue che la tutela della reputazione di chi partecipa alla vita pubblica viene tutelata in maniera meno intensa rispetto a quella di un comune cittadino e che, dove non si sconfini in espressioni direttamente denigratorie della persona (argomenta ad hominem), in presenza del fine di affermare o divulgare le idee o gli interessi della propria parte politica, sono ritenuti leciti toni normalmente ritenuti diffamatori. I veri limiti del diritto di critica politica sono quindi da riscontrare nell’esigenza di diffondere le proprie idee politiche, nell’obbligo di rispettare la verità obiettiva delle affermazioni che riportano fatti determinati e in una continenza adeguata alla congruità rispetto allo scopo della critica[219]. Per quanto riguarda la titolarità del diritto di critica politica, è da escludere che il suo esercizio sia limitato esclusivamente a rappresentanti politici, spettando essa a ogni cittadino quando i commenti siano rivolti a un soggetto che ricopra cariche istituzionali o che svolga attività politica. Di recente, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione si sono occupate del problema sulla facoltà di critica politica spettante al magistrato. Secondo la Corte, il progressivo imbarbarimento dei toni ha reso lecite espressioni che, un tempo, sarebbero state considerate diffamatorie; questo beneficio non può però essere riconosciuto solo ai politici di professione, ma esteso a tutti coloro che partecipano a una competizione politica, compresi i magistrati, ai quali spetta il diritto ex articolo 21 Cost. di esercitare liberamente il diritto di critica anche nei confronti di esponenti del Governo[220]. Nel campo della critica politica si deve escludere l’orientamento di chi sostiene che, nell’ipotesi in cui narrazione di fatti ed espressione di opinioni si intersechino, si può tenere conto della natura prevalente dell’attività in modo da valutarla come manifestazione di cronaca o di critica. La dilatazione dei limiti insiti nel diritto di cronaca politica, porterebbe così al pericolo di una lecita attribuzione di fatti infamanti travestiti da considerazioni critiche. Nonostante il suddetto inasprimento di toni ed espressioni, è richiesto dalla dottrina il rispetto di un minimo etico di condotta, che mantenga la dialettica entro ragionevoli ambiti di civiltà, per evitare che il confronto delle idee degeneri in una sorta di gioco al massacro[221].
Per citare alcuni esempi tratti dalla giurisprudenza della Cassazione, sono state ritenute rientranti nell’esercizio del diritto di critica espressioni come “furfante”, “responsabile di furfanterie”[222], “è un Giuda”[223], “protettori di illegalità”[224], “buffone e ridicolo”[225], mentre non sono state ritenute scriminate ai sensi dell’articolo 51 c.p. espressioni come “persona compromessa ed invischiata”[226].
Si pone come una variante della critica politica, l’esercizio della critica sindacale. Anche la dialettica propria della contesa sindacale, caratterizzata dagli scopi di tutela degli interessi di una categoria di lavoratori, trova una particolare applicazione in materia di diritto di critica per il prevalente rilievo attribuito all’interesse pubblico in questione[227]. La Corte di Cassazione sul tema ha, infatti, affermato che se le espressioni diffamatorie rientrano tra gli argomenti dialettici attinenti l’esercizio dei doveri di vigilanza e di denuncia del sindacato, non è necessario accertare la sussistenza del requisito della verità, ma solo della correttezza delle espressioni usate[228]. Sono così richiamate in tale ambito le considerazioni svolte concernenti la cronaca politica.
3.4.2. La critica giudiziaria
Di recente, la presa di coscienza di un diritto-dovere di informare a trecentosessanta gradi, ha reso più frequente il fenomeno della critica giudiziaria, cioè rivolta ai magistrati con riferimento agli atti da essi compiuti nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Infatti, un’attività caratterizzata da così ampi poteri di discrezionalità, seppur motivata, non può prestarsi facilmente immune da opinioni e giudizi, purché si tratti di dissensi o censure che rispettino il limite della verità, della pertinenza e della continenza[229]. La manifestazione di un dissenso, anche espresso in tono aspro e polemico, rispetto alle decisioni di un magistrato deve in particolare rispettare la correttezza dei termini usati e deve essere diretta esclusivamente all’atto, che può essere criticato sotto il profilo di legittimità, merito, o anche solo di mera opportunità, e non degenerare nell’insulto e nella considerazione che il magistrato autore dell’atto gode nel suo ambito professionale e corpo sociale[230].
Per citare alcuni esempi, non è stata considerata scriminante ai sensi dell’articolo 51 c.p. la condotta di chi ha attribuito parzialità di natura politica a un magistrato, in quanto intrinsecamente offensiva[231], mentre è sussiste l’esimente in esame, sempre nel caso ricorrano i limiti suddetti, se si censura l’opera di un magistrato accusandolo di “subalternità psicologica” nei confronti della ricca e potente famiglia del magistrato[232].
3.4.3. La critica artistica, scientifica, storica e professionale
Altri due settori, le cui considerazioni in tema di diritto di critica sono comuni e assimilabili sono quello artistico e quello scientifico. Per critica artistica s’intende l’analisi di un’opera letteraria, teatrale, musicale, figurativa, etc. in ottica valutativa, basata su parametri culturali propri del soggetto attivo, col fine di ricostruire i valori che possano qualificarne l’espressione artistica.
La critica scientifica è, invece, quella che investe il campo delle conoscenze dell’uomo. Oltre a matematica, logica e scienze naturali (fisica, chimica, biologia, etc.) sono considerate tali anche le cd. scienze umane quali psicologia, sociologia, diritto, etc.. Nella critica scientifica, per ognuno di tali settori, viene verificata la conformità di tesi, ipotesi, scoperte, ricerche, elaborazioni rispetto al patrimonio acquisito, con lo scopo di ottenere una conferma o una smentita[233].
Nonostante un isolato orientamento che vede il fondamento del diritto di critica artistica e scientifica nell’articolo 33 Cost., esso trova il suo principio generale nella libertà di pensiero di cui all’articolo 21 Cost. e la regola che sancisce la libertà dell’arte e della scienza ne è semmai un espressione complementare[234]. Nel campo artistico e scientifico, rispetto alle altre forme di critica, si deve rilevare come i giudizi e le opinioni, in materia di valutazione su spettacoli teatrali, cinematografici, concertistici, su creazioni letterarie o figurative e in ogni altra forma di manifestazione, devono attenere strettamente alle caratteristiche intrinseche dell’opera[235]. Non possono così essere considerati esercizio del diritto di critica apprezzamenti valutativi su interpreti o autori e sulle loro vicende private, in quanto estranee alla valenza dall’evento artistico. E’ inclusa però una valutazione complessiva e globale della vita artistica del soggetto criticato, comprendente l’insieme delle sue attività svolte nella qualità di autore[236]. Diversa dottrina sostiene, invece, che data la popolarità e la mondanità di alcuni personaggi (riferendosi in specie all’ambito artistico), può essere riconosciuta un’intromissione nella loro vita privata[237].
Quanto ai limiti, non possono ritenersi tali né quello della verità, in quanto non è richiesta per integrare l’esimente in esame una verifica sulla veridicità o sulla validità dell’ipotesi scientifica o artistica, né quello della pertinenza, poiché l’analisi e il giudizio di tali attività, insuscettibili di costrizioni contenutistiche e finalistiche, contengono intrinsecamente un interesse pubblico. L’unico vero limite risulta essere quello della continenza. Sembra poi trovare accoglimento la tesi secondo la quale la critica artistica non necessita in nessun caso di una motivazione razionalmente adeguata in quanto effetto di un’intuizione immediata[238]. E’ di particolare interesse una pronuncia della Corte d’Appello di Milano che si è espressa in merito alla critica, nella specie musicale, rivolta ad autori di chiara e consolidata fama. Il critico, in questo caso, deve porre maggiore cautela e adoperare un approccio problematico nella sua opera, non per timore reverenziale o per concedere uno speciale privilegio, ma perché, se la fama è costruita su solide fondamenta, non può trascurarsi la possibilità che l’impressione e la valutazione estetica possano essere oggetto di discussione o contraddette da altre opinioni[239].
Un ulteriore settore peculiare nel quale si estrinseca il diritto di critica è quello storico. La storiografia viene definita come narrazione e apprezzamento degli eventi umani passati secondo criteri e metodi scientifici. Essa si pone, da un lato, come rappresentazione del fenomeno nel quale confluiscono le azioni individuali dei soggetti, oggetto solo di pura rilevazione (opera vicina alla cronaca), dall’altro, come indagine critica e comparativa che ricostruisce eventi connessi tra loro, fatti ignoti sulla base di fatti noti e li spiega in relazione alle circostanze che li hanno determinati, sulla scorta di regole di esperienza statistica, psicologica e sociale[240].
Così come per la critica artistica e scientifica, la critica storica trova fondamento, oltre che nell’articolo 21 Cost., anche in base all’articolo 33 Cost., poiché, come già accennato, anche la storiografia è considerata una scienza. A differenza di questa, la critica scientifica ha però degli aspetti propri e diversi. La stessa Corte di Cassazione ha rilevato che, perché si possa parlare di indagine storica, dalla quale possa derivare una critica, devono concorrere alcuni indici minimi quali la scientificità del metodo d’indagine, la completezza nella raccolta del materiale, lo studio comparato delle fonti e l’esposizione serena nel linguaggio, cioè priva di forme di animosità personale o aggettivazioni polemiche[241]. Inoltre, dato il carattere fondamentale della scientificità del metodo, sono stati individuati i requisiti base, al di fuori dei quali non si potrà parlare di critica storica, ma di diritto di cronaca o critica generale, o di propaganda politica o religiosa, comunque tutelati dall’articolo 21 Cost.. Si tratta, in primo luogo, dell’autorevolezza delle fonti utilizzate, alla ricerca di fonti qualificate; del pluralismo delle dette fonti, che comporti così l’analisi della prospettiva di varie ideologie e correnti; della completezza del quadro tracciato, al fine di esaminare l’evento nel modo più ampio possibile; della cautela nell’avvertire del tasso di credibilità attribuibile alle varie fonti.
In materia storica, è necessario svolgere una particolare analisi dei tre limiti della verità, della pertinenza e della continenza. Con riguardo al primo requisito, la Corte di Cassazione sostiene che la critica storica debba essere fondata su accadimenti dimostrati e quindi veri, che la prova della verità debba essere ancora più rigorosa rispetto alla mera cronaca, non potendosi fare storia fondandosi su dubbi o insinuazioni e che in caso di intuizioni insindacabili che rapportano uomini ed eventi in un unico contesto, esse devono fondarsi su fatti certi e non sulla pura fantasia[242].
Nell’ambito dell’indagine storica è stato, inoltre, elaborato il concetto di inchiesta quale opera composita con caratteri di storia, politica, narrazione e testimonianza. Pur non potendo esulare dal dovere di obiettività dei fatti riportati, tale attività non può assurgere i crismi di una verità oggettiva. La verità storica, essendo quindi impossibile ricostruire un evento nella sua assoluta certezza, si basa sui caratteri della serietà e scientificità del metodo.
Nella critica storica, passando all’analisi del limite della pertinenza, il pubblico interesse presenta dimensioni più ampie rispetto all’esercizio del diritto di cronaca o di critica, in quanto va visto in un’ottica storica e prescinde dunque dal requisito dell’attualità. Tale interesse deve comunque essere ricercato e accertato, in quanto non tutti gli eventi passati possono avere una connotazione storica e quindi di interesse sociale. Anche vicende private di personaggi storici sono considerati rientranti in tale classificazione, purché siano suscettibili di contribuire in qualche misura alla ricostruzione o all’interpretazione degli avvenimenti.
Il limite della continenza, invece, atteggiandosi ala necessità di una narrazione improntata a una serena compostezza, pacatezza del linguaggio e che non abbia finalità denigratorie, si pone come requisito intrinseco della stessa scienza di ricerca storica[243].
In ultima analisi va accennata brevemente la critica professionale, cioè tra soggetti che svolgono una medesima professione. I giudizi negativi sull’operato del collega sono ritenuti legittimi dalla Corte di Cassazione sempre che restino nell’ambito di un dissenso motivato su basi tecnico – scientifiche e risultino misurati e obiettivi in moda da non ledere la dignità non solo morale, ma anche professionale del soggetto passivo[244]
- 4. Il diritto di satira
Oltre al diritto di cronaca e al diritto di critica, è riconosciuta l’esimente di cui all’ articolo 51 c.p. anche con riferimento all’esercizio del diritto di satira. Per satira si intendono quelle forme di espressione consistenti in una critica rivolta verso personaggi noti al pubblico o su vicende di significativo interesse per la collettività, tramite una rappresentazione della realtà che sia idonea a suscitare riso e ilarità e della quale sia palese il carattere dell’inverosimiglianza e dell’esagerazione[245]. Non può considerarsi satira, però, l’espressione che esuli dai confini di un’interpretazione forzata, ridicola o maliziosa di un avvenimento reale per diventare allusione o insinuazione di un fatto inesistente. La satira è un mezzo che risponde al bisogno collettivo, nonché remoto (si pensi agli epigrammi e alle commedie dell’antichità greca e romana) di irridere e sbeffeggiare personaggi potenti o comunque noti, ma ha anche assunto, in tempi recenti, la capacità di attrarre il pubblico e attirarne l’attenzione verso un’analisi riflessiva.
La stessa Corte di Cassazione non si è sottratta al compito di dare una definizione precisa della satira, sostenendo che si tratti di una manifestazione del pensiero, talora di altissimo livello, che, col passare del tempo, si è assunta il delicato compito di castigare ridendo mores[246], cioè di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili di persone o eventi, per ottenere, mediante il riso che viene suscitato, un esito di carattere etico e correttivo[247].
La satira può assumere svariate forme, come per esempio vignette all’interno di giornali o sketch teatrali o televisivi e può abbracciare ambiti vari e differenti, atteggiandosi a satira, politica, religiosa, professionale, di costume etc., mentre una peculiare modalità espressiva di essa è la caricatura, cioè l’alterazione consapevole e accentuata delle caratteristiche somatiche, morali o comportamentali di un soggetto, al fine di suscitare l’ilarità, tramite la narrazione verbale, lo scritto, il disegno o la rappresentazione scenica[248].
Così come per il diritto di cronaca e il diritto di critica, anche il diritto di satira trova immediata tutela nella libertà di manifestazione del pensiero sancita dall’articolo 21 Cost.; altri appigli normativi si possono rinvenire anche nel primo comma dell’articolo 9 Cost., che sancisce un diretto riconoscimento costituzionale alle attività culturali e nel primo comma dell’articolo 33 Cost., che tutela quelle artistiche[249]. Si può così affermare che il diritto di satira si differenzia da quello di cronaca e di critica, costituendosi così come autonoma causa di giustificazione.
Bisogna affrontare, prima della trattazione dei limiti, la questione inerente la sussistenza del fatto tipico del delitto di diffamazione, cioè se sia ipotizzabile un nesso di identificazione tra attività satirica e aggressione alla reputazione.
Secondo un’autorevole teoria, la dichiarata non veridicità della rappresentazione satirica, per i suoi aspetti paradossali, surreali e inverosimili che la caratterizzano e che l’allontanano dall’attività di cronaca, escluderebbero alla radice l’intrinseca potenzialità offensiva della satira e tanto è maggiore l’accentuazione grottesca, tanto minore sarà la sua attitudine lesiva[250].
La satira, però, può anche prestarsi ad attribuire fatti disonorevoli per il soggetto schernito, per esempio deformandoli da fatti reali o può assumere i caratteri di un vero e proprio veicolo di informazione. Bisognerà pertanto verificare caso per caso l’eventuale idoneità della manifestazione satirica ad assumere esclusivamente connotati di aggressione al soggetto che ne è vittima[251].
Passando ad analizzare i limiti del diritto di satira, è opinione condivisa l’escludere la verità dal novero dei requisiti che consentono di individuare la satira lecita. Il presupposto è che questa si presenti nella sua forma più autentica, priva cioè di contenuti informativi. Tornerà d’uso il limite della verità, invece, per quelle manifestazioni satiriche accompagnate in maniera indissolubile dal fine di informare e solo limitatamente a tale ambito. Comunque, tendenzialmente, il fine della satira non è quello di ricostruire eventi, ma di sottolineare una certa interpretazione dei fatti o di un personaggio, spesso esasperati per rendere la lettura più immediata, anche tramite l’ilarità. Questo comporta quindi una visione formalmente alterata del vero, ma resa palese e non con lo scopo di ingannare il destinatario della satira[252]. Concorda con questo orientamento anche la giurisprudenza, la quale sostiene che la satira, esprimendo mediante un paradosso o una metafora un giudizio ironico su un fatto, è sottratta al parametro della veridicità[253]. Non può però considerarsi rientrante nell’esimente dell’esercizio di un diritto la satira che si risolve in un allusione gratuitamente offensiva a fatti inesistenti e che non sia collegata a un dissenso motivato[254].
E’, invece, pacificamente riconosciuta l’esigenza di rispettare il limite della pertinenza. L’interesse sociale nella satira deve essere valutato sotto un duplice profilo relativo sia alla notizia o al fatto dal quale trae origine, sia all’attività stessa della satira. La valutazione sulla pertinenza va dunque fatta sugli indici di notorietà di fatti e personaggi, escludendo quindi ciò che concerne la vita privata di persone note. Presentandosi però la satira come alterazione della verità storica, il diritto alla riservatezza sulle vicende private non viene sacrificato da una rappresentazione distorta. La notorietà del personaggio va, però, valutata con riferimento anche a un ristretto ambiente in cui opera e non esclusivamente rispetto alla generalità dell’opinione pubblica[255].
Per quanto riguarda la continenza, in ragione della particolare natura del linguaggio satirico (iperbolico, simbolico, paradossale, surreale) non è facile individuare i limiti di correttezza espressiva e ingabbiarlo in rigidi parametri di valutazione. Col venire meno però del requisito della verità, pensare a una satira che non sia limitata nemmeno dalla continenza significherebbe sacrificare del tutto la tutela della reputazione del soggetto[256]. La giurisprudenza ha così ribadito in più pronunce che anche la satira, per integrare l’esimente di cui all’articolo 51 c.p., non può consistere in espressioni attributive di condotte illecite, in accostamenti volgari o ripugnanti, in forme che si atteggino a concreta denigrazione e aggressione della persona.
A detta della giurisprudenza, che si è pronunciata più volte sulla questione e anche di recente, le manifestazioni satiriche dato il loro carattere di maggior potenzialità offensiva rispetto al diritto di cronaca e al diritto di critica, devono rispettare un ulteriore limite consistente nella funzionalità rispetto allo scopo di denuncia sociale e devono essere strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso motivato all’evento o al personaggio preso di mira[257].
[123] Fiandaca – Musco, op. cit., p. 91; Polvani, op. cit., p. 84; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4097.
[124] Cass. Pen., Sez. V, 26/10/1991, Graziosi, CED 189588; Cass. Pen., Sez. V, 13/02/1985, Criscuolo, CED 169146.
[125] C. Cost., 14/07/1971, n. 175, in Giur. it., 1972, p. 1.
[126] Fiandaca – Musco, op. cit., p. 94; Polvani, op. cit., p. 87; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4106; Antolisei, op. cit., p. 174.
[127] Cass. Pen., Sez. V, 10/02/1989, Mulser, CED 181025.
[128] Cass. Pen., Sez. VI., 1/06/1979, Collacciani, CED 144157.
[129] Cass. Pen., Sez. V, 17/06/2002, Staglieno, CED 222340; Cass. Pen., Sez. V, 24/09/1997, Sgarbi, CED 209264.
[130] Cass. Pen., Sez. V, 21/04/1999, Sgarbi, CED 214649; Cass. Pen., Sez. V, 14/12/1999, Sgarbi, CED 215990.
[131] C. Cost., 17/01/2000, n. 10, in www.cortecostituzionale.it; C. Cost., 17/10/2000, n. 11, in www.cortecostituzionale.it.
[132] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4087.
[133] Polvani, op. cit., p. 89; Nuvolone, op. cit., p. 245; Verri – Cardone, op. cit., p. 59.
[134] Verrà usato il termine “diritto di cronaca” ormai adottato da tutti gli operatori del diritto; il termine esatto sarebbe, però, “libertà di cronaca”.
[135] Polvani, op. cit., p. 91; Bartole – Bin, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008, p. 163.
[136] Marinucci, cit., p. 4050; Verri – Cardone, op. cit., p. 62.
[137] Bartole – Bin, op.cit., p. 21; Nuvolone, op. cit., p. 50, Polvani, op. cit., p. 90.
[138] Polvani, op. cit., p. 94.
[139] Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, p. 229.
[140] Polvani, op. cit., p. 99.
[141] C. Cost., 23/03/1968, n. 50, in Giust. Cost., 1968, p. 460.
[142] Marinucci – Dolcini, cit.,p. 4049; Antolisei, op. cit., p. 213; Polvani, op. cit., p. 89; Mantovani, op. cit., p. 211; Nuvolone, op. cit., p.50. Per la giurisprudenza, tra le altre Cass. Pen., Sez. V, 21/09/2005, Amici, CED 232324; Cass. Pen., Sez. V, 05/03/2004, Giacalone, CED 227754.
[143] Cass. Civ., Sez. III, 07/01/2009, in Dir. Giust., 2009; Cass. Pen., Sez. V, 16/12/2004, Scalfari, CED 230719; Cass. Pen., S. U., 26/03/1983, Narducci, CED 159240.
[144] Fiandaca – Musco, op. cit., p. 100; Verri – Cardone, op. cit., p. 67; Mantovani, op. cit., p. 284; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4051; Polvani, op. cit., p. 100.
[145] Polvani, op. cit., p. 113; Verri – Cardone, op. cit., p. 113.
[146] Cass. Pen., Sez. VI, 08/03/1974, Carnuccio, CED 127740; Cass. Pen., Sez. VI, 16/04/1971, Sabato, CED 118353.
[147] Trib. Napoli, 17/10/1977.
[148] Cass. Pen., S. U., 26/03/1983, Dotti, in Cass. pen., 1983, p. 1942.
[149] Polvani, op. cit., p. 116.
[150] L’art. 2 della l. 3 febbraio 1963, n. 69 recita:”È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede.
Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori.
Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori”.
[151] Polvani, op. cit., p. 119.
[152] Nuvolone, op. cit., p. 50.
[153] Polvani, op. cit., p. 155; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4052.
[154] Cass. Pen., S. U., 30/06/1984, Ansaloni, CED 166252.
[155] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4053.
[156] Cass. Pen., Sez. V, 19/05/2004, De Giovanni, CED 231002; Cass. Pen., 22/06/2001, Panerai, CED 219638.
[157] Polvani, op. cit., p. 103; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4056.
[158] Cass. Pen., Sez. V, 9/02/1979, De Simone, in Giust. Pen., p. 698.
[159] Polvani, op. cit., p. 106.
[160] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4056; Polvani, op. cit., p. 106.
[161] Polvani, op. cit., p. 105.
[162] Art. 8 Cedu – “Diritto al rispetto della vita privata e familiare – Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.
Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
[163] Corte Cost., ord. 12/04/1973, n. 38, in Foro.it, p. 1707.
[164] Polvani, op. cit., p. 108.
[165] Polvani, op. cit., p. 110.
[166] Cass. Pen. Sez. V, 13/02/1985, Criscuoli, in Cass. Pen., p. 1540.
[167] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4056; Polvani, op.cit., p. 111.
[168] Polvani, op. cit., p. 126; Marinucci – Dolcini, cit., p.4056.
[169] Cass. Pen., Sez. V, 23/10/1987, Buti, in Cass. pen., 1989, p. 201.
[170] Cass. Pen., Sez. I, 14/01/1966, Casetta, in Cass. pen., 1966, p. 1005.
[171] Cass. Civ., Sez. I, 18/10/1984, Granzotti e altri, in Giust. civ., 1985, p. 355.
[172] Cass. Pen., Sez. V., 13/06/2007, Tortoioli, CED 237260.
[173] Polvani, op. cit., p. 132; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4057.
[174] Chindemi, Diffamazione a mezzo stampa (radio – televisione – internet), Milano, 2006, p. 92; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4058.
[175] Chindemi, op. cit., p. 94; Polvani, op. cit., p. 132.
[176] Cass. Pen., Sez. V, 5/02/1986, Bonanota, CED 172422; Cass. Pen., Sez. V, 16/02/1986, D’Amato, in Cass. pen., 1986, p. 1755; Cass. Pen., Sez. V, 20/10/1983, Scalfari, CED 162155.
[177] Polvani, op. cit., p. 134.
[178] Cass. Pen., Sez. V., 16/01/1995, Bardi, CED 200660.
[179] Cass. Pen., S. U., 30/05/2001, Galiero, CED 219651.
[180] Cass. Pen., Sez. V, 1/02/1993, Cocchi, CED 193840.
[181] Polvani, op. cit.p. 135.
[182] Cass. Pen., Sez. V, 20/12/2007, Colacito, CED 238872.
[183] Cass. Pen., Sez. V, 18/12/1980, Faustini, CED 148102.
[184] Polvani, op. cit., p. 137.
[185] Cass. Pen., Sez. V, 13/05/1987, Argentiero, in Giust. pen., 1988, p. 345.
[186] Polvani, op. cit., p. 139.
[187] Cass. Pen., Sez. V, 21/10/2008, Favaran, CED 242780.
[188] Cass. Pen., Sez. I, 28/01/2008, Mauro, CED 239163.
[189] C. Cost., 3/03/1966, n.18, in Riv. it. dir. proc. pen., 1966, p. 627.
[190] Cass. Pen., Sez. V, 12/05/1999, Pinori, CED 215038; Cass. Pen., Sez. V, 2/06/1998, Scalfari, CED 211635.
[191] Trib. Livorno, 23/03/1951, Banti, in Giust. pen., 1951, p. 878.
[192] App. Roma, 20/06/1953, Neri, in Temi Romana, 1953, p. 278.
[193] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4060.
[194] Polvani, op. cit., p. 149.
[195] Grevi, Le intercettazioni come mero “mezzo di ricerca” di riscontri probatori?, in Cass. pen., 2009 ,Vol. 49, n. 3, p. 848.
[196] Grevi, op. cit., p. 848.
[197] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4061; Polvani, op. cit., p. 145.
[198] Marinucci – Dolcini, cit., p. 4061; Polvani, op. cit., p. 177; Fiandaca – Musco, op. cit., p. 102; Verri – Cardone, op. cit., p. 244.
[199] Cass. Pen., Sez. V, 3/07/1993, Barile, CED 194300.
[200] Cass. Pen., Sez. V, 9/10/1995, Montanelli, CED 203389 afferma che non occorre che la critica sia necessariamente formulata in riferimento a precisi dati fattuali.
[201] Polvani, op. cit., p. 178.
[202] Nuvolone, op. cit., p. 73.
[203] Polvani, op. cit., p. 179.
[204] Manzini, op. cit., p. 445.
[205] Polvani, op. cit., p. 180; Mantovani, op. cit., p. 283; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4060; Verri – Cardone, op. cit., p. 246; Chindemi, op. cit., p. 142; in giurisprudenza tra tutte: Cass. Pen., Sez. V, 1/07/2008, Alberti, CED 241182; Cass. Pen., Sez. V, 20/02/2008, Pavone, CED 239825.
[206] Polvani, op. cit., p. 181; Verri – Cardone, op. cit., p. 248.
[207] Art. 10 Cedu: “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce che gli Stati sottopongano a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.
L’esercizio di queste libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e la imparzialità del potere giudiziario”.
[208] Cass. Pen., Sez. V, 20/02/2008, Pavone, CED 239825; Cass. Pen., Sez. VI, 24/04/1978, Covi, CED 140038.
[209] Per la dottrina: Polvani, op. cit., p. 185; Verri – Cardone, op. cit., p. 256; Mantovani, op. cit., p. 211; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4061; Chindemi, op. cit., p. 142; per la giurisprudenza: Cass. Pen., Sez. V, 1/07/2008, Alberti, CED 241182; Cass. Pen., Sez. V, 5/06/2007, Blandini, CED 237711; Cass. Pen., Sez. V, 7/07/2006, Nanetti, CED 235222.
[210] CEDU, 20/07/2001, Perna, in GDir, 2001, p. 31.
[211] Cass. Pen. Sez. V, 14/04/2000, Cinighò, CED 216534; Cass. Pen., Sez. V, 2/07/2007, Scalfari, CED 231269.
[212] Polvani, op. cit., p. 187; Verri – Cardone, op. cit., p. 258.
[213] Verri – Cardone, op. cit., p. 262; Cass. Pen., Sez. V, 16/04/2003, Barile, CED 194300.
[214] Verri – Cardone, op. cit., p. 286.
[215] Verri – Cardone, op. cit., p. 288; Polvani, op. cit., p. 188; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4063.
[216] Polvani, op. cit., p. 190.
[217] Bevere – Cerri, Il diritto d’informazione e i diritti della persona, Milano, 2006, p. 250.
[218] Cass. Pen., Sez. V, 2/10/1992, Valentini, CED 192585.
[219] Verri – Cardone, op. cit., p. 293; Polvani, op. cit., p. 191.
[220] Cass. Civ., S. U., 12/04/32005, CED 580276.
[221] Polvani, op. cit., p. 199.
[222] Cass. Pen., Sez. V, 13/03/2008, Ventura, CED 239829.
[223] Cass. Pen., Sez. V, 8/02/2008, Gatto, CED 239125.
[224] Cass. Pen., Sez. V, 18/12/2007, Pandolfelli, CED 239816.
[225] Cass. Pen., Sez. V, 29/11/2007, Angeloni, CED 238341.
[226] Cass. Pen., Sez. V, 27/11/2007, Marazzi, CED 238339.
[227] Verri – Cardone, op. cit., p. 322; Polvani, op. cit., p. 193; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4064.
[228] Cass. Pen., Sez. V, 14/04/2000, Chinigò, CED 216534.
[229] Verri – Cardone, op. cit., p. 327; Polvani, op. cit., p. 200; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4065.
[230] Cass. Pen., Sez. V, 24/11/1994, Liguori, CED 200312; Cass. Pen., Sez. I, 18/09/2000, Buffa, CED 217229; Cass. Pen., Sez. V, 4/12/1998, Soluri, CED 212693.
[231] Cass. Pen., Sez. V, 12/02/2009, Sgarbi, CED 283484.
[232] Cass. Pen., Sez. V, 5/06/2007, Blandini, CED 237711.
[233] Polvani, op. cit., p. 203.
[234] Verri – Cardone, op. cit., p. 335; Polvani, op. cit., p. 204; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4065.
[235] Cass. Pen., Sez. II, 19/06/1963, Page, in Cass. pen., 1963, p. 764.
[236] Polvani, op. cit., p. 205.
[237] Verri – Cardone, op. cit., p. 346.
[238] Cass. Pen., Sez. II, 19/06/1963, Page, in Cass. pen., 1963, p. 764.
[239] App. Milano, 22/05/2001, Ughi, in Dir. Inf., 2001, p. 706.
[240] Verri – Cardone, op. cit., p. 353; Polvani, op. cit., p. 207; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4066.
[241] Cass. Pen., Sez. VI, 26/06/1979, Brera, in Riv. pen., 1979, p. 1041.
[242] Cass. Pen., Sez. V, 27/01/1989, Siniscalchi, in Dir. Inf., 1991, p. 949; Cass. Pen., Sez. V, 29/09/1983, Katz, in Cass. pen., 1984, p. 1404.
[243] Verri – Cardone, op. cit., p. 351; Polvani, op. cit., p. 211.
[244] Cass. Pen., Sez. VI, 24/04/1985, Zanelli, CED 169532; Cass. Pen., Sez. V, 26/09/1979, Azzolina, CED 143962.
[245] Verri – Cardone, op. cit., p. 354; Polvani, op. cit., p. 215; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4066.
[246] Citazione del poeta francese del XVII secolo Jean de Santeul.
[247] Cass. Pen., Sez. I, 24/02/2006, in Dir. e giust., 2006, p. 49.
[248] Cass. Civ., Sez. III, 28/11/2008, in Guida al dir., 2008, p. 60.
[249] Verri – Cardone, op. cit., p. 358; Polvani, op. cit., p. 216.
[250] Mantovani, Profili penalistici del diritto di satira, in Dir. Inf., 1992, p. 300.
[251] Polvani, op. cit., p. 222; Fiandaca – Musco, op. cit., p. 340; Mantovani, op. ult. cit., p. 304.
[252] Verri – Cardone, op. cit., p. 365; Polvani, op. cit., p. 218; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4066.
[253] Cass. Civ., Sez. III, 28/11/2008, in Dir. Giust., 2008, p. 60; Cass. Civ., Sez. III, 24/04/2008, in Giust. Civ., 2008, p. 1627.
[254] Cass. Civ., Sez. III, 4/06/2001, in Dir. Giust., 2001, p. 47.
[255] Verri – Cardone, op. cit., p. 375; Polvani, op. cit., p. 220.
[256] Verri – Cardone, op. cit., p. 376; Polvani, op. cit., p. 220; Marinucci – Dolcini, cit., p. 4067.
[257] Cass. Civ., Sez. III, 28/11/2008, in Dir. Giust., 2008, p. 60; Cass. Pen., Sez. V, 20/01/1992, Carrubba, in Cass. Pen., 1993, p. 2830.
Terzo Capitolo
I SOGGETTI RESPONSABILI
Il nostro ordinamento giuridico ha tentato di dare una tutela completa al bene giuridico della reputazione prevedendo la responsabilità penale non solo dell’autore della pubblicazione, ma anche di altri soggetti. Ciò è stato previsto anche nel caso in cui non possa identificarsi oppure non sia imputabile la persona che ha materialmente realizzato lo scritto lesivo. Tali soggetti sono costituiti dal direttore o dal vice-direttore responsabile, dall’editore e dallo stampatore, tutti ruoli che rivestono una diversa forma di potere di controllo sulla pubblicazione.
La responsabilità del direttore e del vice-direttore responsabile trova il suo fondamento nell’articolo 57 c.p., che disciplina il reato di omesso controllo. Tale ipotesi delittuosa è una delle più discusse e criticate del nostro ordinamento giuridico penale e la sua storia non può ancora dirsi terminata, data la centralità di tale problema nel disegno di legge n. 3176 del 26 ottobre 2004, discusso vivacemente, ma mai approvato in via definitiva dalle Camere. Nonostante la modifica della versione originaria di tale articolo, la nuova formulazione non pare ancora essere limpida, precisa e tale da eliminare controversie e dubbi interpretativi, tanto da indurre, come si vedrà, alcuni autori che si sono occupati dell’argomento a proporre un’ulteriore riforma di tale fattispecie delittuosa, in modo da coniugare in maniera più lineare il principio costituzionale della responsabilità penale colpevole di cui all’articolo 27 Cost. con le moderne forme assunte dalle imprese giornalistiche, sia per quanto riguarda la struttura organizzativa, sia per l’utilizzo delle nuove tecnologie telematiche.
Il fondamento normativa della responsabilità dell’editore e dello stampatore si riscontra, invece, nell’articolo 57 bis c.p. che la circoscrive alle ipotesi di pubblicazioni in stampa non periodica.
- 1. La responsabilità del direttore
1.1. La disciplina originaria dell’articolo 57 c.p. e l’attuale formulazione
Il reato di omesso controllo del direttore o del vice-direttore responsabile è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico dal legislatore del 1930[258] per rispondere all’esigenza di predisporre uno strumento di controllo efficace e penetrante sulle pubblicazioni, impedendo così, tramite un meccanismo di prevenzione generale, che siano commessi reati per mezzo della stampa. La versione originaria dell’articolo 57 c.p. prevedeva la responsabilità penale per i reati commessi a mezzo stampa (limitatamente a quella periodica) in capo al direttore o redattore responsabile per la sola circostanza di ricoprire tale incarico, fatta comunque salva la responsabilità dell’autore. Il punto 2 della precedente versione dell’articolo 57 c.p. prevedeva, in caso di stampa non periodica, la responsabilità dell’autore della pubblicazione e, qualora questi fosse ignoto o non imputabile, dell’editore o infine, nel caso in cui anche l’editore fosse ignoto o non fosse imputabile, dello stampatore. Non volendo lasciare una zona di impunibilità a tali reati, come nel caso in cui l’autore della condotta non sia identificato o identificabile, il legislatore ha così scelto di individuare preventivamente un soggetto al vertice dell’attività imprenditoriale di stampa sul quale fare ricadere la responsabilità penale della pubblicazione[259]. A suscitare numerosi contrasti in dottrina è stata naturalmente la scelta di criminalizzare la mera circostanza della copertura dell’incarico, prevedendo la lettera della legge l’inequivoca espressione “per ciò solo”.
Secondo una parte della dottrina, l’articolo 57 c.p. contemplava un’ipotesi di responsabilità presunta per omissione del dovere di controllo sul contenuto della pubblicazione, implicita nel fatto dell’avvenuta commissione del reato, qualificandosi così come responsabilità per fatto proprio[260].
Per un opposto orientamento invece, il direttore era chiamato a rispondere dei reati commessi con il mezzo della stampa in conseguenza dell’assunzione dell’incarico di responsabile della pubblicazione, data la volontà legislativa che prescinde da un nesso di causalità sia materiale che psicologico, prevedendo così una forma di responsabilità oggettiva, o di posizione, per fatto altrui[261]. Questa seconda interpretazione però, dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale, si poneva in maniera palesemente incompatibile con il principio della personalità della responsabilità penale, sancito espressamente al primo comma dell’articolo 27 Cost..
La giurisprudenza di legittimità propendeva per la prima interpretazione, configurando la responsabilità in esame non come oggettiva, ma come personale per fatto proprio colposo, derivante dalla omissione negligente del potere-dovere di controllo sulla pubblicazione. Infatti la legge 8 febbraio 1948, n. 47 ha introdotto l’obbligo a carico del direttore o del vice-direttore responsabile di sottoporre a preventiva verifica il contenuto del giornale da lui diretto allo scopo di impedire la commissione di reati; veniva in questo modo fondata, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, una duplice conseguenza: tale obbligo collocava la responsabilità del direttore nello schema dei reati omissivi, per il mancato o insufficiente uso del potere-dovere di controllo e, inoltre, l’addebitabilità dell’evento in capo al direttore veniva considerato a titolo di colpa, seppur presunta per il fatto stesso dell’avvenuta commissione del reato, e non di responsabilità oggettiva[262].
Tale interpretazione fu successivamente avallata dalla Corte Costituzionale, chiamata a giudicare la legittimità costituzionale dell’articolo 57 c.p. per violazione dell’articolo 27 Cost.[263]. Con una sentenza interpretativa di rigetto, la Corte ha dichiarato l’infondatezza dell’illegittimità costituzionale della norma, poiché questa contemplava una responsabilità personale per fatto proprio per omissione degli obblighi di vigilanza e controllo ed era ravvisabile sia un nesso di causalità materiale, sia un nesso psicologico. La Corte Costituzionale ha però anche dato voce agli obiettivi dubbi dottrinali, chiarendo che questa interpretazione veniva accolta non in base a un’attribuzione rilevante della lettera della legge, ma dalla conforme giurisprudenza della Cassazione che l’ha resa concreta ed efficace. La Corte, nella motivazione della sentenza, ha così sollecitato il legislatore a intervenire, modificando il testo dell’articolo 57 c.p. in modo da renderlo anche formalmente più adeguato alla Costituzione.
L’intervento del legislatore non si è fatto attendere troppo e con la legge 4 marzo 1958, n. 27 è stato introdotto il nuovo testo. La norma risultante, oltre a far salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e i casi di concorso, prevede la responsabilità a titolo di colpa del direttore o del vice-direttore responsabile che, ometta di esercitare il controllo necessario per evitare la commissione di reati a mezzo stampa sul contenuto del periodico da lui diretto; la pena prevista è quella stabilita per il reato commesso sul periodico, diminuita fino al massimo di un terzo[264]. Viene così introdotta una forma di responsabilità penale maggiormente ancorata ai parametri stabiliti dall’articolo 27 Cost., in quanto è esclusa la responsabilità oggettiva per fatto altrui: la responsabilità si fonda, infatti, come ha rimarcato anche la Corte di Cassazione, su una condotta colpevole del direttore, identificabile nell’omissione, formale o sostanziale, del controllo necessario per evitare la commissione di reati[265]. E’ così configurabile anche il caso di pubblicazione illecita pur senza la responsabilità del direttore. Altro importante aspetto, rilevato anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, è che la novella ha delineato un regime normativo più favorevole, venendo a comminare pene più miti (nella versione precedente non era prevista la diminuzione fina a un terzo della pena) e introducendo un concetto di colpa più ristretto di quello di cui all’articolo 43 c.p.; l’elemento soggettivo viene così individuato non nelle forme generiche di negligenza, imperizia o inosservanza di norme, ma dal venir meno della specifica regola di condotta che impone al direttore il controllo sulla pubblicazione[266]. La novella dell’articolo 57 c.p. non ha però eliminato una serie di dubbi interpretativi e di perplessità sul tipo di responsabilità che fanno di tale norma una delle più discusse nel campo della dottrina penale. Resta però ferma l’importante precisazione che, oltre a non ammettere, come detto, l’ipotesi di una responsabilità oggettiva per fatto altrui, la Corte Costituzionale ha escluso che l’attività di controllo si possa risolvere in una forma di censura sulla stampa, vietata dal secondo comma dell’articolo 21 Cost.; il controllo del direttore, infatti, è intrinseco e funzionale allo svolgimento della sua stessa attività e si differenzia così dal provvedimento di censura adottato dalla pubblica amministrazione che ha per fine il controllo esterno delle manifestazioni di pensiero scritte[267].
1.2. Ratio della norma e bene giuridico protetto
Come è stato in precedenza osservato, lo scopo della norma è quello di evitare che vengano commessi reati col mezzo del quotidiano o del periodico del direttore, rendendo più efficace il controllo da parte del direttore sul contenuto di quanto viene pubblicato, o con l’attribuzione a quest’ultimo di una responsabilità penale. La stampa, infatti, è uno strumento con un alto tasso di potenzialità lesiva nei confronti della vittima del reato, in quanto è destinata a un numero indefinito di soggetti e l’offesa pubblicata è idonea a essere permanente.
Identificata così la ratio della norma, pare evidente che essa sia priva di un oggetto giuridico proprio. L’articolo 57 c.p. si pone come una disposizione atta a tutelare, in via indiretta, ogni interesse che sia tutelato a sua volta dalle norme incriminatrici che prevedono reati che possono essere commessi a mezzo stampa[268]. La tutela di questi interessi, così, è nettamente rafforzata con l’identificazione, accanto all’autore della pubblicazione, di un ulteriore soggetto responsabile, il direttore o il vice-direttore, che si trova in una posizione di garanzia rispetto a soggetti che possono essere lesi da reati commessi col suo giornale.
1.3. I soggetti attivi
La fattispecie delittuosa di cui all’articolo 57 c.p., come risulta dalla lettera dalla legge e come conferma anche la Corte di Cassazione[269], costituisce un’ipotesi di reato proprio o a soggettività ristretta, ossia può essere commessa esclusivamente da quei soggetti che rivestono la qualifica di direttore o di vice-direttore responsabile. E’ direttore responsabile chi è indicato come tale nella dichiarazione di registrazione di un periodico o nella dichiarazione dei successivi mutamenti in base agli articoli 5 e 6 della legge 8 febbraio 1948, n. 47[270]. L’individuazione di una posizione di garanzia trova così il suo fondamento, a capo del direttore e del vice-direttore responsabile, sulla base della titolarità di questi soggetti della responsabilità sul periodico e dei loro ampi poteri d’intervento riguardanti sia il contenuto della pubblicazione, sia l’an della stessa.
Sempre la c.d. “legge sulla stampa” prevedeva anche la contravvenzione (oggi depenalizzata dalla legge 24 dicembre 1975, n. 706) di omessa o errata indicazione sul periodico del nome del direttore (art. 17) e stabilisce i requisiti per poter ricoprire tale carica al secondo comma dell’articolo 3: cittadinanza italiana e iscrivibilità nelle liste elettorali politiche. La legge 3 febbraio 1963, n. 69, che stabilisce la disciplina sull’ordinamento della professione di giornalista, all’articolo 46 richiedeva anche l’ulteriore requisito dell’iscrizione nell’elenco dei giornalisti professionisti, ma la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima questa norma, per contrasto con l’articolo 21 Cost., nella parte in cui non prevede che direttore e vice-direttore responsabile possano essere iscritti anche solo all’elenco dei giornalisti pubblicisti[271].
Con due importanti sentenze, la Corte di Cassazione ha affermato che, anche quando non siano state rispettate le prescrizioni amministrative per la nomina del direttore, è comunque destinatario dell’obbligo di controllo chi eserciti di fatto le funzioni corrispondenti[272]. In questo modo, nel caso di sostituzione di un direttore e in mancanza della prescritta registrazione del mutamento, obbligo e responsabilità incomberebbero solo in capo al secondo.
In una pronuncia successiva la Corte di Cassazione ha poi stabilito che il direttore dimissionario può ritenersi esonerato dalla responsabilità penale, derivante dalla commissione di un reato a mezzo stampa, solo quando alle dimissioni si accompagni l’effettiva cessazione delle funzioni inerenti all’incarico ricoperto[273]. Tale pronuncia ha ribaltato l’orientamento precedente che riteneva le dimissioni un fatto meramente interno e privo di rilevanza giuridica, fino alla sostituzione del direttore o alla cessazione delle pubblicazioni; tale situazione è apparsa troppo formalistica, facendo oltretutto trasparire un pericolo di responsabilità oggettiva del direttore, che sarebbe chiamato a rispondere per il solo fatto della sua qualifica.
Il terzo comma dell’articolo 3 della legge 2 febbraio 1948, n. 47, impone la nomina di un vice-direttore responsabile nel caso in cui il direttore sia investito di mandato parlamentare, estendendo così a questi l’applicazione della disciplina prevista per il direttore. Lo scopo di tale norma è quello di costituire un centro di responsabilità autonomo e immediatamente attingibile quando l’azione penale nei confronti del direttore sia condizionata dall’immunità o dall’autorizzazione previste per i membri del Parlamento ex articolo 68 Cost.[274].
Restano da trattare alcuni profili problematici. Il primo è quello relativo alla decadenza della registrazione ai sensi dell’articolo 7 della “legge sulla stampa” per la mancata pubblicazione del periodico entro sei mesi della registrazione o per interruzione di oltre un anno della sua pubblicazione[275]. Secondo una pronuncia della Corte d’Appello di Milano, con la decadenza della registrazione non viene meno la responsabilità del direttore che sia stato registrato[276].
Tale soluzione non ha, però, persuaso la dottrina: nomina e registrazione del direttore sono richieste esclusivamente in funzione della registrazione dello stampato; quindi, nel caso in cui questa decada, travolgerebbe anche qualità, obblighi e responsabilità a essa funzionalmente connessi[277].
Una seconda questione riguarda poi la sussistenza o meno della responsabilità di cui all’articolo 57 c.p. in capo al direttore che venga nominato all’interno della pubblicazione, anche nel caso in cui la nomina non fosse necessaria, in quanto il giornale in questione non riveste il carattere di periodico o quotidiano in senso tecnico. La Corte di Cassazione si è espressa in senso positivo[278], suscitando aspre critiche in dottrina.
In una precedente pronuncia la Cassazione aveva stabilito che, per individuare la natura di periodico o di quotidiano non bisogna fare riferimento ai caratteri esterni della pubblicazione, quali identità di formato di stampa e di prezzo, ma a caratteri tipici quali varietà e attualità della materia che si rinnova continuamente, trattazione di argomenti eterogenei e struttura informativa[279]. La natura di periodico è quindi una circostanza di fatto che costituisce il presupposto della registrazione e non può derivare da questa, che ha solo meri effetti ricognitivi. Se lo stampato non è periodico, a prescindere quindi dalla nomina del direttore, non sarà applicabile l’articolo 57 c.p., bensì l’articolo 57 bis c.p.[280].
1.3.1 La delega delle funzioni di controllo
In riferimento ai soggetti attivi di cui all’articolo 57 c.p., si pone il problema della delegabilità delle funzioni di controllo del direttore responsabile. La questione si pone con riguardo ai maggiori organi d’informazione dove il direttore, a differenza di quanto accade nei piccoli quotidiani o periodici, è titolare di una funzione di programmazione generale che altri soggetti, però realizzano (come, per esempio, un caporedattore o un caposervizio), a causa della dimensione e importanza dell’azienda, che spesso è composta da diverse sedi, redazioni ed edizioni locali. In queste situazioni è inevitabile per il direttore delegare alcuni aspetti della gestione del giornale.
Alcune isolate sentenze, in presenza di obiettive e fondate ragioni hanno escluso la responsabilità del direttore in presenza di deleghe, che debbano avere determinate caratteristiche, tali da manifestare la loro effettività, quali la qualifica dirigenziale del soggetto delegato, il potere concreto di controllo e la dimensione dell’azienda che richieda una divisione funzionale del lavoro[281]. Ritenendo diversamente, si finirebbe per legare la responsabilità del direttore responsabile di un importane quotidiano o periodico a una culpa in eligendo dei soggetti delegati.
La giurisprudenza e la dottrina grandemente maggioritarie hanno però accolto l’orientamento opposto, sostenendo l’esclusiva e non delegabile responsabilità del direttore e l’inammissibilità di responsabilità alternative[282]. I responsabili di singole pagine o di singoli settori del giornale (cronaca, politica, economia, sport, etc.) rilevano esclusivamente per l’organizzazione interna del lavoro, ma sono del tutto privi di rilevanza giuridica nei termini dei doveri di vigilanza e controllo propri del direttore. La delegabilità delle funzioni è, infatti, in netto contrasto con la lettera dell’articolo 57 c.p., che individua a chiare parole la responsabilità a capo di un solo soggetto, il direttore. La delegabilità, inoltre, trasformerebbe il dovere di vigilanza e controllo in un diverso dovere di predisporre un’adeguata struttura aziendale alla quale demandare l’intera attività e finirebbe per produrre l’effetto di vanificare sia la responsabilità penale del direttore, sia quella del delegato, al quale non può essere addebitato di aver violato un dovere di controllo che non gli è imposto da nessuna norma penale[283].
Sul tema si è espressa anche la Corte Costituzionale, che ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 57 c.p. sotto il profilo della disparità di trattamento (art. 3 Cost.) tra il direttore di un piccolo giornale, che può concentrarsi sul dovere di controllo, restando scarsamente assorbito da altri compiti, e il responsabile di un organo di informazione di rilievo nazionale, che per la quantità di doveri legali e contrattuali e per l’entità di scritti eterogenei destinati alla pubblicazione, troverebbe alquanto difficoltoso il corretto esercizio di un controllo costante, ponderato ed efficace. Per la Corte il direttore è guida e ispiratore del periodico e le sue difficoltà nell’adempiere al dovere di controllo connesse alla dimensione del quotidiano costituiscono esclusivamente un problema di fatto, che semmai potrebbe orientare il legislatore verso scelte di tipo differenti da quelle attuali, ma che non inducono a rilevare diseguaglianze costituzionalmente rilevanti[284].
Si è posto, infine, un problema riguardante la questione se la responsabilità per omesso o imperfetto controllo del direttore, debba essere estesa anche al redattore responsabile. Tale estensione si porrebbe in netto contrasto con il principio di legalità che nega l’analogia in materia penale in base al secondo comma dell’articolo 25 Cost.[285]. Anche la Corte di Cassazione ha avallato tale interpretazione, sostenendo che la figura del redattore responsabile non è prevista dall’ordinamento della professione giornalistica e quindi questi può rispondere del reato a mezzo stampa solo a titolo di dolo quando risulti accertata la partecipazione diretta e consapevole alla pubblicazione, a prescindere dall’organizzazione interna dell’azienda giornalistica[286].
1.3.2 L’assenza del direttore per ferie e malattia
La vita di un organo di stampa, così come ogni genere di attività d’impresa, è caratterizzata da eventi ciclici, come le ferie, o anche variabili, come una malattia, che possono interessare tutti i soggetti coinvolti nella pubblicazione. Riveste particolare importanza il caso in cui il soggetto che abbia usufruito delle ferie o che sia a casa in malattia sia proprio il direttore responsabile, al quale spetta il dovere di controllo.
E’ pacificamente escluso che, ai fini dell’esclusione della responsabilità di cui all’articolo 57 c.p., le ferie possano considerarsi come impedimento dovuto a forza maggiore. Tale ipotesi, infatti, ricorre unicamente in presenza di un evento che sia non prevedibile o, se prevedibile, non impedibile, in modo da porsi completamente al di fuori della volontà del soggetto.
L’usufruire di un periodo di ferie è, al contrario, una scelta e una conseguenza diretta e immediata di una determinazione del soggetto agente e la responsabilità può essere esclusa unicamente quando difetti un nesso psichico tra l’omissione e l’evento, cosa che non accade, per la volontarietà del comportamento, nel caso di assenza per ferie[287]. Il direttore responsabile inoltre, quando usufruisce delle ferie, fa legittimamente uso di un diritto irrinunciabile, sancito dal combinato degli articoli 36 Cost., comma 3 e 2109 c. c., comma 2.
Pur essendo di rango costituzionale, il direttore fa valere il diritto alle ferie nei confronti del suo datore di lavoro (presumibilmente il proprietario del giornale o periodico) e non è quindi legittimato a mettere in pericolo, abbandonando il controllo sulla pubblicazione, i beni di soggetti terzi[288].
D’altro canto, ogni giornale o periodico deve avere un direttore responsabile del controllo e così la Corte di Cassazione è giunta alla soluzione in base alla quale, per escludere la responsabilità del direttore nel periodo in cui gode delle ferie che gli spettano, è sufficiente, senza ricorrere alle procedure previste dagli articoli 5 e 6 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, la preventiva indicazione nel giornale della persona che lo sostituisca, in modo da assicurare la costanza del controllo e consentire di individuare, in ogni situazione, un responsabile in caso di mancato esercizio di questo[289].
Problematiche analoghe e quindi anche medesima soluzione si pongono nelle ipotesi di viaggi all’estero per motivi di lavoro o di assenze per esigenze personali. Considerazione a parte merita poi la malattia del direttore: in questo caso, infatti, è legittimamente invocabile un impedimento per causa di forza maggiore[290].
1.4. La natura del reato
La natura della fattispecie delittuosa delineata dall’articolo 57 c.p. è stata spesso oggetto di dibattito, in particolare sulla questione se essa configuri un reato autonomo oppure una forma di concorso colposo del direttore nel reato doloso dell’autore della pubblicazione.
Tuttavia il dibattito non è più attuale, dal momento che la dottrina prevalente ha accolto il primo orientamento basandosi su una serie di motivi. Innanzitutto la stessa lettera della legge esplicita che la norma si applica “fuori dei casi di concorso” e così l’alternativa rispetto al concorso non può che essere l’autonomia della figura criminosa. In secondo luogo l’articolo 58 bis c.p., che concerne le condizioni di procedibilità dei reati commessi a mezzo stampa, distingue nettamente le due ipotesi di reato e il secondo comma di tale articolo estende all’autore la querela presentata contro il difensore, mentre l’effetto opposto, non previsto, è quindi escluso. Inoltre è escluso che la remissione della querela nei confronti del direttore giovi all’autore e viceversa[291].
Anche la Corte di Cassazione ha accolto questo orientamento, sancendo come la responsabilità del direttore si atteggia con natura propria e autonoma e che il reato commesso tramite la pubblicazione si presenta come conseguenza di un comportamento colposo del direttore, del quale costituisce esclusivamente l’evento[292].
L’autonomia del reato rispetto a quello commesso dall’autore dello scritto non deve, però, essere intesa in senso assoluto e oggettivo, sia per l’identità dell’interesse leso da entrambi, sia perché il secondo reato costituisce, come già detto, evento in senso tecnico rispetto al primo. Il rapporto tra i due reati viene così definito dalla dottrina come accessorietà genetica[293].
1.5. La condotta e l’evento
La condotta sanzionata dall’articolo 57 c.p. consiste nell’omissione, da parte del direttore o del vice-direttore responsabile, del controllo necessario a impedire che vengano commessi reati con il mezzo della stampa[294]. Il precetto normativo è eluso e la fattispecie delittuosa si realizza non solo quando il controllo è totalmente mancante, ma anche quando, in quanto superficiale, negligente o inadeguato, è comunque inidoneo a impedire la commissione del reato[295], così come nel caso in cui vi sia un errore di diritto sulla liceità penale dell’articolo incriminato[296].
La dottrina e la giurisprudenza sono così concordi nel classificare tale fattispecie all’interno dei reati omissivi impropri, cioè a condotta omissiva con evento[297]. Tale categoria comprende i reati nei quali la legge incrimina il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa, imposta per impedire il verificarsi dell’evento, che si pone quindi come elemento costitutivo del fatto.
E’ necessario, a questo punto, accertare quale sia la condotta positiva alla quale è tenuto il direttore responsabile. Senza dubbio si può sostenere che l’azione doverosa consista nell’esercizio del controllo necessario a impedire che, con la pubblicazione, vengano commessi reati. Il direttore avrà così il dovere giuridico di controllare il contenuto del periodico ed eventualmente esercitare i poteri di censura (negare l’autorizzazione alla pubblicazione) e di sostituzione (modificare il contenuto dell’articolo, semmai previa autorizzazione dell’autore) che gli derivano dalla struttura interna dell’impresa editoriale[298].
Presenta maggiori problematiche la determinazione dei caratteri che deve presentare tale controllo. Il direttore nella sua attività di vigilanza, che dovrà essere continua e capillare, pur non essendo tenuto a ripetere personalmente la fatica del cronista, dovrà leggere il materiale che deve essere pubblicato, risalire alle fonti nel caso di dubbi, scegliere oculatamente i propri collaboratori e vigilare sul loro operato[299]. Il direttore, perciò, nel visionare tutti gli scritti dovrà individuare quelli che presentino un contenuto lesivo per l’altrui reputazione. Su tali scritti dovrà controllare se sussistono i tre requisiti per l’esercizio del diritto di cronaca (o di critica o di satira).
Se il vaglio del direttore sulla pertinenza e sulla continenza non presentano particolari problemi, un discorso a parte va fatto con riguardo al requisito della verità. La giurisprudenza richiede al direttore un controllo piuttosto blando, affermando che esso avrà l’obbligo di controllare le fonti esclusivamente nel caso in cui la non autenticità della notizia traspaia dallo stesso testo da pubblicare o quando la fonte non dia ampie garanzie di serietà, escludendo così la responsabilità quando la fonte sia riconosciuta e qualificata[300].
La dottrina però ritiene insufficienti questi parametri, richiedendo al direttore un’attività di verifica, di analisi e di confronto molto più approfondita; tale tesi considera, inoltre, che qualora fosse rilevata una realtà qualificata dagli indici stabiliti dalla giurisprudenza (per esempio notizia che fa trasparire la propria non autenticità), il direttore non potrebbe essere incriminato per colpa ex articolo 57 c.p., ma, sussistendo il dolo diretto o eventuale, dovrebbe rispondere di concorso nel delitto di diffamazione[301].
Per concludere, bisogna ricordare che il dovere di controllo del direttore non si limita all’attività di cronaca o comunque alle attività giornalistiche in senso stretto, ma ricomprende anche la pubblicazione di annunci, lettere o inserzioni pubblicitarie, essendo egli responsabile per ogni reato che venga commesso tramite la stampa[302].
Per quanto riguarda, invece, la definizione dei reati a mezzo stampa, nozione rilevante per stabilire l’ambito di applicazione della norma in esame, come confermato dalla rubrica dell’articolo, si rimanda a quanto trattato in tema di aggravante dell’offesa a mezzo stampa[303]. Si ricorda brevemente solo che sono definiti reati a mezzo stampa quelli contenuti in scritti o stampati e rispetto ai quali la stampa funziona come modalità di esecuzione criminosa[304].
1.6. La consumazione e il tentativo
Il reato di omesso controllo di cui all’articolo 57 c.p. si consuma nel momento e nel luogo in cui si perfeziona il reato commesso a mezzo stampa, eventualmente anche nella forma di tentativo[305]. Il tentativo del reato commesso dal direttore, essendo una fattispecie colposa, non è configurabile[306].
1.7. L’elemento soggettivo
Per quanto riguarda il profilo psicologico, il reato di cui all’articolo 57 c.p., individua una fattispecie colposa, come risulta chiaro dallo stesso testo della norma[307]. E’, infatti, responsabile il direttore che a titolo di colpa abbia omesso il dovuto controllo sul contenuto del periodico, causando così la commissione di un reato a mezzo stampa.
L’uso dell’espressione “a titolo di colpa”, ha però indotto un’isolata dottrina a ritenere che la colpa non sia tanto il fondamento della responsabilità, ma il titolo di questa, che conseguirebbe in maniera automatica al solo fatto dell’omissione, anche se incolpevole[308].
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, però, confutato questo orientamento, escludendo che nell’articolo 57 c.p. possa ravvisarsi un’ipotesi di responsabilità presunta, in quanto è richiesta una determinata condotta al direttore responsabile e solo in caso di inosservanza di questa, nonché della concomitante commissione di un reato a mezzo stampa, può configurarsi la fattispecie delittuosa[309].
Si tratta, dunque, di una responsabilità colposa intesa come imperizia riguardante ambiti professionali e che deve abbracciare sia l’omesso controllo, sia l’oggetto del reato. Come rilevato anche dalla Corte Costituzionale, l’elemento soggettivo, in questo modo, risulterà mancante quando il reato a mezzo stampa venga commesso per caso fortuito, forza maggiore, costringi mento fisico o errore invincibile o anche quando il soggetto abbia agito con la diligenza richiesta all’agente modello[310].
Si è quindi posto il problema della misura della diligenza richiesta al direttore nell’esercizio del doveroso controllo sulle pubblicazioni. Se tale misura fosse eccessiva, richiedendo un controllo decisamente troppo gravoso e insostenibile, si rischierebbe di reintrodurre occultamente un’ipotesi di responsabilità oggettiva, se fosse troppo blanda, si consentirebbero comportamenti che il legislatore avrebbe voluto evitare. Bisogna pertanto soffermarsi sull’accertamento e sulla prova della colpa e dell’omissione del controllo.
Alcune risalenti pronunce giurisprudenziali erano arrivate a configurare ipotesi occulte di responsabilità oggettiva in contrasto con il principio della personalità della responsabilità penale, individuando come prova il mero fatto dell’avvenuta pubblicazione[311] o la mera qualità di direttore responsabile[312].
La responsabilità per colpa, invece, deve essere dimostrata in concreto, applicando i principi generali in tema di accertamento. A prescindere dal caso di controllo omesso totalmente, esso sarà negligente quando non sarà conforme a quello che avrebbe tenuto il direttore modello, identificato in base alle massime d’esperienza. La dottrina considera la stampa un’attività pericolosa consentita e quindi il controllo che possa escludere la responsabilità del direttore dovrà essere tanto più intenso quanto più la pubblicazione possa sembrare lesiva di beni protetti[313].
1.8. Il concorso con l’autore dell’articolo
L’articolo 57 c.p. fa salvi dall’applicazione della sua disciplina i casi di concorso e questo a ulteriore dimostrazione della tesi che individua nella fattispecie in esame un reato autonomo, spiegando così anche la diminuzione della pena.
Tuttavia, si può parlare di concorso quando il direttore, abbia agito previo accordo con l’autore dello scritto diffamatorio e non solo non abbia impedito la pubblicazione, ma l’abbia anche condivisa.
Il direttore, in tal caso, ha piena coscienza del contenuto lesivo dell’articolo, consente e quindi vuole comunque la pubblicazione, con la consapevolezza di recare un contributo necessario atipico alla condotta dell’autore e al verificarsi dell’evento[314].
La prova del dolo, pur non agevole, è quindi ricavabile dalle circostanze della pubblicazione, come il contenuto degli scritti, la vistosità della forma esteriore, l’evidenza e la collocazione tipografica[315]. Non troverà quindi applicazione la disciplina dell’articolo 57 c.p. e non potrà ridursi così la pena.
Vi è, infine, un contrasto sul caso della pubblicazione di uno scritto anonimo che contenga uno scritto diffamatorio. Un orientamento dottrinale ha ritenuto il direttore di un periodico, che consenta la pubblicazione di un articolo anonimo, assume in prima persona la responsabilità del suo contenuto: non risponde perciò del reato di omesso controllo, ma realizza una condotta consapevole volta a diffondere lo scritto lesivo, con la sua diffusione tramite lo strumento di cui dispone[316].
Al contrario, la Corte di Cassazione ha affermato che, anche in caso di scritto anonimo, la sussistenza del dolo deve essere provata, altrimenti l’unica fattispecie configurabile è quella di cui all’articolo 57 c.p.[317].
1.9. Prospettive di riforma
Come si è già accennato, autorevole dottrina che si è occupata dell’articolo 57 c.p. ha segnalato la necessità di modificare nuovamente la disciplina ivi prevista[318]. Questa esigenza nasce da un lato dalla consapevolezza dell’anacronisticità e dei numerosi problemi pratici che presenta la norma, dall’altro dalla considerazione che una modifica legislativa costituirebbe il modo più efficace per risolvere tali questioni.
Uno degli aspetti che ha mostrato maggiori profili critici, evidenziati anche dalla Corte Costituzionale[319], è la circostanza molto frequente nella pratica che il reato di omesso controllo impone obblighi il cui inadempimento è spesso inesigibile[320], per esempio in riferimento alle difficoltà nello svolgimento delle attività di controllo in strutture giornalistiche sempre più complesse e strutturate, oppure ai casi trattati di assenza per ferie del direttore.
Sarebbe quindi necessaria una modifica legislativa che adotti il criterio di ripartizione delle responsabilità in rapporto alla diversità di ruoli spettanti a coloro che esercitano effettive funzioni di controllo o, in alternativa, che preveda due distinte figure: un direttore editoriale cui spetti l’impostazione dell’indirizzo del periodico, e un direttore responsabile preposto esclusivamente alle funzioni di controllo previste dall’articolo 57 c.p.[321].
Il tema della responsabilità del direttore è stato affrontato dal legislatore con il disegno di legge n. 3176 del 26/10/2004, discusso vivacemente, ma mai approvato. L’articolo 2 del disegno di legge rivisitava completamente l’articolo 57 c.p.[322] eliminando l’elemento psicologico della colpa, escludeva la punibilità anche al direttore responsabile di una testata radiofonica o televisiva e prevedeva come delitti presupposti anche quelli commessi mediante il mezzo radiotelevisivo o altri mezzi di diffusione, aspetti che meglio verranno trattati nell’ultimo capitolo.
Si è evidenziato in dottrina, però, che la nuova espressione nel disegno di legge secondo la quale il direttore sarebbe responsabile se il delitto fosse conseguenza della “violazione dei doveri di vigilanza” sia eccessivamente generica e indefinita[323].
L’augurio è ora rivolto alla speranza che, partendo da tale disegno di legge, anche tendendo conto delle critiche a esso rivolte, il legislatore possa proporre un nuovo progetto normativo di modifica, più organico e adatto alle attuali esigenze del mondo della stampa.
- 2. La responsabilità dell’editore e dello stampatore
Nello studio dei soggetti responsabili dei reati commessi col mezzo della stampa, va ora analizzata la disciplina dell’articolo 57 bis c.p.. La norma è stata introdotta nel nostro ordinamento giuridico dall’articolo 1 della legge 4 marzo 1958, n. 127 (lo stesso provvedimento col quale il legislatore si è curato di modificare il tenore dell’articolo 57 c.p., per renderlo più in armonia con la Costituzione) e prevede la responsabilità di altri due soggetti: l’editore e lo stampatore.
Innanzitutto bisogna sottolineare che la disciplina di tale articolo, al contrario di quelli ex articolo 57 c.p., è applicabile esclusivamente alla stampa non periodica. Trattandosi di pubblicazione non avente cadenza temporale regolare e dichiarata a norma dell’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, non è prevista dalla legge la nomina della figura del direttore responsabile e, così, la responsabilità cadrà su altri soggetti. La giurisprudenza, nell’individuare la stampa non periodica[324], ha evidenziato come essa, a differenza di quella periodica, si caratterizza per l’assenza di continuità della pubblicazione, mentre non è necessario che sia rivolto esclusivamente a un numero limitato di soggetti[325].
Così come la fattispecie prevista dall’articolo 57 c.p., anche l’articolo 57 bis c.p. contempla un reato proprio, ossia che può essere commesso esclusivamente da soggetti che ricoprono la qualifica di editore o di stampatore. Quindi, mentre l’autore è chi ha ideato e realizzato l’articolo, il disegno e l’immagine la cui pubblicazione ha integrato il reato di diffamazione[326], è editore il soggetto, sia persona fisica che giuridica, esercitante l’attività d’impresa editrice di stampa[327]. In ultimo, lo stampatore è il titolare della licenza per l’esercizio della tipografia dove la stampa è stata eseguita[328]. Si configura in questo modo, analogamente a quanto accade nella disciplina prescritta per il direttore responsabile, un reato autonomo e non un’ipotesi di concorso.
Quanto al merito della fattispecie, a differenza dell’articolo 57 c.p., che prevede una responsabilità concorrente dell’autore e del direttore, in questo caso è prevista una responsabilità alternativa e sussidiaria, o a cascata: la responsabilità del reato commesso a mezzo stampa ricadrà in primo luogo sull’autore della pubblicazione, qualora questo sia ignoto o non imputabile, sarà responsabile l’editore e, nel caso in cui l’editore non sia indicato o non sia punibile, lo stampatore[329].
Lo scopo della norma mira chiaramente a evitare che restino impuniti dei reati con un potenziale offensivo piuttosto elevato come quelli commessi a mezzo stampa, individuando in ogni caso un soggetto responsabile.
Il tipo di responsabilità, dato il richiamo esplicito contenuto nella norma, è quello stabilito dall’articolo 57 c.p., configurandosi così come omesso impedimento colposo del reato commesso a mezzo stampa. L’obbligo di controllo sul contenuto della pubblicazione sorge in capo all’editore e allo stampatore esclusivamente quando non sia individuabile l’autore del pezzo (o lo stesso editore) o nel caso in cui questi sia incapace. Non è però sufficiente la supposta individuazione dell’autore o dell’editore e della loro capacità per esentare i soggetti previsti dall’articolo 57 bis c.p. dalla responsabilità, ma tale identificazione deve essere effettiva e reale.
E’ ritenuto ignoto l’autore di cui non si conoscano le generalità e che risulti non individuabile anche a seguito di indagini[330]. Perché si possa configurare la responsabilità dell’editore o dello stampatore è necessaria, però, anche un’ulteriore prova, eventualmente indiziaria, della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in capo all’autore ignoto. Non è facile dimostrare la presenza del dolo a capo di un soggetto ignoto, ma esso può essere desunto, così come viene ricavato anche nel caso di autore noto, dal contenuto e dalla forma dello scritto diffamatorio[331].
Con riguardo alla responsabilità dello stampatore, integrata esclusivamente nel caso in cui manchi l’indicazione dell’editore, una risalente sentenza della Corte di Cassazione ha accolto una posizione che sostiene che questi sia considerato non indicato qualora non siano rispettate le prescrizioni formalmente indicate dall’articolo 2 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 del nome e del domicilio di questo, senza la possibilità di ricavarne altrimenti l’identità[332].
Dottrina pressoché unanime ha ritenuto estremamente rigido e formalistico tale orientamento, ritenendo che debba ritenersi sufficientemente indicato nella pubblicazione il soggetto da considerarsi editore quando la sua identità sia ricavabile dallo scritto, anche se solo sommariamente menzionato e questo secondo la ratio della norma che richiede l’imputazione della responsabilità al soggetto noto di livello più alto possibile[333]. Nel caso in cui, però, non risulti identificabile nella pubblicazione, non è consentito svolgere indagini per la sua individuazione. L’imputabilità di autore ed editore, invece, deve essere valutata secondo le norme del codice penale al momento del fatto.
Un’altra questione dibattuta in dottrina è quella concernente la riconduzione dell’immunità alla non imputabilità: secondo un primo orientamento questa non è possibile[334], è accolta invece da altri autori[335].
Una volta accertato che il soggetto che lo precede nell’ordine delle responsabilità sia ignoto, non identificato o non imputabile, l’editore (o lo stampatore) deve controllare il contenuto dello stampato.
Sulla misura della diligenza richiesta nel controllo esistono differenti orientamenti. In base a una prima posizione, la natura di tale controllo per editore e stampatore sarebbe la medesima prevista a carico del direttore nell’articolo 57 c.p.[336].
Estendere parametri di diligenza propri di soggetti diversi e tecnicamente più preparati, quale è il direttore responsabile, rischierebbe, però, di reintrodurre in maniera occulta e per via interpretativa un’ipotesi di responsabilità di posizione. Si creerebbe così un evidente contrasto con il principio della personalità della responsabilità penale sancito dall’articolo 27 Cost..
Una seconda posizione, proponendo un’interpretazione costituzionalmente orientata, ha sostenuto infatti che l’unico obbligo imposto dall’articolo 57 bis c.p. è quello di accertare l’identità e l’imputabilità dell’autore e dell’editore, essendo prevista una responsabilità per fatto proprio fondata su colpa[337].
Sembra però preferibile accogliere un orientamento intermedio, il quale prevede un duplice obbligo per i soggetti attivi nel caso in questione: in prima battuta il detto controllo sull’individuazione e l’imputabilità dei soggetti che precedono nell’ordine delle responsabilità; in secondo luogo, sarà necessario un controllo sul contenuto della pubblicazione, ma la natura della diligenza richiesta non sarà quella prevista dall’articolo 57 c.p., ma si baserà sui parametri richiesti per l’editore modello e lo stampatore modello[338].
Occorre, infine, segnalare che nel caso di stampa periodica clandestina, cioè quella per la quale non sia stata effettuata la registrazione prescritta dall’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 e nel caso di stampa non periodica, priva dell’indicazione del nome dell’editore e dello stampatore, l’articolo 58 c.p. estende l’applicazione degli articolo 57 e 57 bis c.p. anche ai reati commessi con tali mezzi[339].
[258] Codice Rocco, r. d. 19/10/1930, n. 1398. Versione precedente dell’art. 57: “Per i reati commessi col mezzo della stampa si osservano le disposizioni seguenti: 1) qualora si tratti di stampa periodica, chi riveste la qualità di direttore o redattore responsabile risponde, per ciò solo, del reato commesso salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione; 2) qualora si tratti di stampa non periodica, del reato commesso risponde l’autore della pubblicazione, ovvero, se questi è ignoto o non imputabile, l’editore, ovvero, se anche questi è ignoto o non imputabile, lo stampatore”.
[259]Marinucci – Dolcini, sub art. 57 c.p., cit., p. 728; Polvani, op. cit., p. 223; Verri – Cardone, op. cit., p. 405 .
[260] Anotlisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Milano, 1949, p. 211; Pannain, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Roma, 1942, p. 332.
[261] Manzini, op. cit., p. 576; Nuvolone, op. cit., p. 106.
[262] Cass. Pen., Sez. II, 15/07/1953, Vais, in Giust. pen., 1954, p. 415; Cass. Pen., Sez. I, 25/06/1953, Pennisi, in Giust. pen., 1954, p. 420.
[263] C. Cost., 15/06/1956, n. 3, in Giust. pen., 1954, p. 285.
[264] La Cassazione, sulla pena da infliggere al direttore ha di recente stabilito che essa deve essere ancorata a quella astrattamente prevista per il suddetto reato, così come eventualmente circostanziato, e non già a quella concretamente irrogata al colpevole. Cass. Pen., Sez. V, 13/05/2008,Tossi, CED 240494.
[265] Cass. Pen., Sez. I, 26/03/1963, Salerno, in Giust. pen., 1964, p. 188.
[266] Cass. Pen., S. U., 18/11/1958, Maiorino, in Giust. pen., 1958, p. 922.
[267] C. Cost., 21/06/1960, n. 44, in Giust. pen., 1960, p. 325.
[268] Marinucci – Dolcini, cit., p. 729; Nuvolone, op. cit., p. 103.
[269] Cass. Pen., Sez. I, 24/02/1976, Parlato, CED 133500.
[270] Art. 5: “Registrazione – Nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi. Per la registrazione occorre che siano depositati nella cancelleria:
1) una dichiarazione, con le firme autenticate del proprietario e del direttore o vice direttore responsabile, dalla quale risultino il nome e il domicilio di essi e della persona che esercita l’impresa giornalistica, se questa è diversa dal proprietario, nonché il titolo e la natura della pubblicazione;
2) i documenti comprovanti il possesso dei requisiti indicati negli artt. 3 e 4;
3) un documento da cui risulti l’iscrizione nell’albo dei giornalisti, nei casi in cui questa sia richiesta dalle leggi sull’ordinamento professionale;
4) copia dell’atto di costituzione o dello statuto, se proprietario è una persona giuridica.
Il presidente del tribunale o un giudice da lui delegato, verificata la regolarità dei documenti presentati, ordina, entro quindici giorni, l’iscrizione del giornale o periodico in apposito registro tenuto dalla cancelleria. Il registro è pubblico”. Art 6: “Dichiarazione dei mutamenti – Ogni mutamento che intervenga in uno degli elementi enunciati nella dichiarazione prescritta dall’articolo 5, deve formare oggetto di nuova dichiarazione da depositarsi, nelle forme ivi previste, entro quindici giorni dall’avvenuto mutamento, insieme con gli eventuali documenti. L’annotazione del mutamento è eseguita nei modi indicati nel terzo comma dell’art. 5. L’obbligo previsto nel presente articolo incombe sul proprietario o sulla persona che esercita l’impresa giornalistica, se diversa dal proprietario”.
[271] C. Cost., 02/07/1968, in Giust. Cost., 1968, p. 1554.
[272] Cass. Pen., Sez. V, 21/04/1983, Loiacono, CED 159541; Cass. Pen., Sez. V, 21/04/1983, Signorino, CED 159542.
[273] Cass. Pen., Sez. V, 29/09/2000, Bottoni, CED 218209.
[274] Marinucci – Dolcini, cit., p. 730; Polvani, op. cit., p. 231.
[275] Art. 7: “Decadenza della pubblicazione – L’efficacia della registrazione cessa qualora, entro sei mesi dalla data di essa, il periodico non sia stato pubblicato, ovvero si sia verificata nella pubblicazione una interruzione di oltre un anno”.
[276] App. Milano, Sez. I, 15/06/1977, Lanzillo, in Foro pad., 1977, p. 194.
[277] Polvani, op. cit., p. 232; Verri – Cardone, op. cit., p. 413.
[278] Cass. Pen., Sez. VI, 20/04/1968, Schicchero, CED 108766.
[279] Cass. Pen., Sez. VI, 19/12/1967, Delle Monache, CED 107676.
[280] Polvani, op. cit., p. 234.
[281] App. Milano, 7/04/1972, B., in Temi, 1972, p. 447.
[282] Cass. Pen., Sez. V, 20/06/2007, Marchesini, CED 237579; Cass. Pen. Sez. V, 27/09/2004, Graldi, CED 230597; Cass. Pen., Sez. V, 16/02/1986, D’Amato, in Cass. pen., 1986, p. 1755; Cass. Pen., Sez. V, 11/02/1987, Ponti, CED 175782; Cass. Pen., Sez. I, 1/06/1964, Balducci, CED 99240; per la dottrina: Polvani, op. cit., p. 236; Marinucci – Dolcini, cit., p. 739; Verri – Cardone, op. cit., p. 414; Fiandaca, E’ “ripartibile” la responsabilità penale del direttore di stampa periodica?, in Foro.it, 1983, p. 570.
[283] Polvani, op. cit., p. 237.
[284] C. Cost., 24/11/1982, n. 198, in Giur. Cost., 1982, p. 2111.
[285] Verri – Cardone, op. cit., p. 414.
[286] Cass. Pen., Sez. V, 27/09/2004, Graldi, CED 230597; Cass. Pen., Sez. I, 17/11/1997, Gizzo, CED 209141.
[287] Cass. Pen., Sez. VI, 11/06/1969, Mistico, CED 108924; Cass. Pen., Sez. V, 11/02/1987, Ponti, CED 175782; Cass. Pen., Sez. V, 23/05/1991, Mastrojanni, CED 187697.
[288] Polvani, op. cit., p. 252; Verri – Cardone, op. cit., p. 420.
[289] Cass. Pen., Sez. V, 28/10/1997, Scalfari, CED 209026.
[290] Polvani, op. cit., p. 252.
[291] Mantovani, op. cit., p. 393; Nuvolone, op. cit., p. 115; Marinucci – Dolcini, cit., p. 730; Polvani, op. cit., p. 230; Verri – Cardone, op. cit., p. 427.
[292] Cass. Pen., S. U., 18/11/1958, Maiorino, in Giust. pen., 1958, p. 922.
[293] Marinucci – Dolcini, cit., p. 731; Nuvolone, op. cit., p. 103.
[294] Mantovani, op. cit., p. 394; Marinucci – Dolcini, cit., p. 731; Polvani, op. cit., p. 244; Verri – Cardone, op. cit., p. 435.
[295] Cass. Pen., Sez. V, 13/02/1985, Criscuoli, in Cass. Pen., p. 1540.
[296] Cass. Pen., S. U., 18/11/1958, Clementi, CED 98039.
[297] Marinucci – Dolcini, cit., p. 731; Nuvolone, op. cit., p. 120; Cass. Pen., Sez. V, 26/02/2003, Graldi, CED 224404; Cass. Pen., Sez. V, 28/05/1999, Monti, CED 214128.
[298] Cass. Pen. Sez. V, 13/02/1985, Criscuoli, in Cass. Pen., p. 1540.
[299] Nuvolone, op. cit., p. 120.
[300] Trib. Napoli, 8/11/1984, Pironti, in Giur. merito, 1986, p. 927; Trib. Napoli, 11/10/1977, Menghini, in Giur. merito, 1979, p. 999.
[301] Polvani, op. cit., p. 246.
[302] Polvani, op. cit., p. 246; Nuvolone, op. cit., p. 101.
[303] Capitolo I, 1.7.
[304] Nuvolone, op. cit., p. 102.
[305] Per la consumazione del reato a mezzo stampa vedasi Capitolo I, 1.5.
[306] Marinucci – Dolcini, cit., p. 740.
[307] Polvani, op. cit., p. 254; Marinucci – Dolcini, cit., p. 733; Verri – Cardone, op. cit., p. 461; Fiandaca – Musco, op. cit., p. 581.
[308] Pisapia, Istituzioni di diritto penale, Padova, 1970, p. 109.
[309] Cass. Pen., S. U., 18/11/1958, Clementi, CED 98039; Cass. Pen., Sez. V, 21/04/1983, Loiaconi, CED 159541; Cass. Pen., Sez. V, 17/11/1999, Turani, CED 216495.
[310] C. Cost., 24/11/1982, n. 198, in Giur. Cost., 1982, p. 2111.
[311] Trib. Milano, 27/12/1972, Vassilef, in Rep. Giur. it., 1964, p. 12.
[312] App. Firenze, 4/12/1958, Tedeschi, in Rep. Giur. it., 1959, p. 16.
[313] Marinucci – Dolcini, cit., p. 735.
[314] Cass. Pen., Sez. V, 7/07/1981, Cingoli, CED 150974.
[315] Cass. Pen. Sez. V, 13/02/1985, Criscuoli, in Cass. Pen., p. 1540; Cass. Pen., Sez. V, 8/06/1992, Petta, CED 191622.
[316] Marinucci – Dolcini, cit., p. 736.
[317] Cass. Pen., Sez. V, 2/05/1990, Scalfari, CED 185122.
[318] Razzante, Manuale del diritto dell’informazione e della comunicazione, Padova, 2002, p. 291; Verri – Cardone, op. cit., p. 478; Polvani, op. cit., p. 242.
[319] C. Cost., 24/11/1982, n. 198, in Giur. Cost., 1982, p. 2111.
[320] Razzante, op. cit., p. 291.
[321] Polvani, op. cit., p. 242.
[322] Così la versione modificata: “Salvo la responsabilità dell’autore della pubblicazione, e fuori dai casi di concorso, il direttore o il vicedirettore responsabile del quotidiano, del periodico o della testata giornalistica, radiofonica o televisiva, risponde dei delitti commessi col mezzo della stampa, della diffusione radiotelevisiva o con altri mezzi di diffusione se il delitto è conseguenza della violazione dei doveri di vigilanza sul contenuto della pubblicazione. La pena è in ogni caso ridotta di un terzo”.
[323] Verri – Cardone, op. cit., p. 480.
[324] Si veda anche il Capitolo III, paragrafo 1.3..
[325] Cass. Pen., S. U., 15/12/1951, D’Errico, CED 097129.
[326] Cass. Pen., Sez. V, 7/06/1989, Panci, CED 182250.
[327] Cfr. artt. 1, 11, 18 della legge 5 agosto 1981, n. 416.
[328] App. Ancona, 6/11/1962, Melchiorri, in Riv. it. dir. proc. pen., 1963, p. 1175.
[329] Polvani, op. cit., p. 267; Marinucci – Dolcini, cit., p. 742; Verri – Cardone, op. cit., p. 475; Nuvolone, op. cit., p. 128.
[330] Cass. Pen., Sez. V, 24/06/1992, Scalfari, CED 191932.
[331] Marinucci – Dolcini, cit., p. 742.
[332] Cass. Pen., Sez. I, 4/03/1963, Melchiorri, in Cass. pen., 1964, p. 64.
[333] Polvani, op. cit., p. 267; Marinucci – Dolcini, cit., p. 743; Verri – Cardone, op. cit., p. 475.
[334] Marinucci – Dolcini, cit., p. 743; Manzini, op. cit., p. 643.
[335] Verri – Cardone, op. cit., p. 476.
[336] Romano, Commentario sistematico del Codice penale, Milano, 1995, p. 539.
[337] Verri – Cardone, op. cit., p. 476.
[338] Marinucci – Dolcini, cit., p. 743.
[339] Marinucci – Dolcini, cit., p. 744; Polvani, op. cit., p. 268.
Quarto Capitolo
I NUOVI MEZZI DI COMUNICAZIONE
L’incredibile progresso tecnologico che ha investito il campo della comunicazione iniziato a fine del XIX secolo e sviluppatosi costantemente a partire dal secolo scorso, ha modificato in maniera significativa la società e il modo di rapportarsi a questa delle singole persone.
L’ambito che ha giovato – ma al tempo stesso subito – della più grande rivoluzione legata a tali nuove scoperte è, senza dubbio, l’informazione che ha visto moltiplicare il suo potenziale diffusivo, velocizzarne i tempi e amplificarne il raggio.
I tre mezzi che più hanno inciso sul mondo della stampa sono la radio, la televisione e internet. Si sono aperte nuove strade nell’ambito dell’informazione, non solo legate esclusivamente alla carta stampata. Il grandissimo successo che hanno sortito questi strumenti tra la popolazione, grazie alla massima rapidità della divulgazione, all’accessibilità in ogni luogo, alla immensa varietà di contenuto (si pensi ai numerosissimi e diversi spazi tematici che offre internet, inimmaginabili su qualsiasi stampato), li ha resi dei veri e propri mezzi di comunicazione di massa, tali da affiancare e i tradizionali quotidiani e giornali.
Anche il diritto penale della stampa, dunque, deve interessarsi a questi nuovi mezzi cercando di comprenderne le problematiche, in modo da poter fornire soluzioni soddisfacenti.
Il legislatore ha in questo senso un ruolo fondamentale. Tuttavia, si deve rilevare come il suo intervento sia stato lacunoso e spesso caratterizzato da disparità di trattamento rispetto alla disciplina prevista per la stampa cartacea.
Nonostante i vari sforzi e tentativi di sopperire a questi vuoti di tutela e diseguaglianze, la giurisprudenza non ha potuto colmare tutte le lacune, dovendo arrestare la propria attività interpretativa nel rispetto del principio di legalità e in particolare al divieto di analogia in malam partem.
Permangono così significative e irragionevoli lacune che richiederebbero un pronto intervento normativo, magari di carattere generale, riformatore dell’intera materia.
- 1. Il mezzo radiotelevisivo
1.1. Il sistema radiotelevisivo e la disciplina ante legge Mammì
La trasmissione radiofonica consiste nella trasmissione via onde radio di programmi ricevibili dal pubblico mediante l’uso di appositi apparecchi ricevitori. La trasmissione televisiva consiste nella trasmissione via cavo, via etere o via satellite, in forma codificata o non codificata di programmi televisivi destinati al pubblico[340].
Sono esclusi da tale definizione i servizi o i messaggi di telecomunicazione che operano su richiesta individuale (per esempio la pay per view) ed è necessario, perché possa parlarsi di trasmissione radio-televisiva, che il ricevente non possa modificare il programma né nella sua ricezione, né nella sua impostazione cronologica[341].
Il momento cardine, che ha rivoluzionato la disciplina normativa in ambito radiotelevisivo nel panorama italiano, è costituito dall’emanazione della legge 6 agosto 1990, n. 223, “Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato” (detta Legge Mammì). Tale norma, che verrà analizzata più approfonditamente nel prossimo paragrafo, ha, infatti, trasformato drasticamente il sistema previgente sotto un duplice profilo: da un lato, ha sottratto allo Stato l’esercizio in via esclusiva dell’attività radiotelevisiva, dall’altro, ha modificato la disciplina penale del reato di diffamazione, commesso con il mezzo di tali strumenti.
Quanto al primo punto, il principio della riserva a favore dello Stato fu sancito per la prima volta con la legge 30 giugno 1910, n. 395 e venne confermato in successivi interventi legislativi[342] coi quali si procedette al rilascio della concessione in esclusiva a un’unica società (prima Unione Radiofonica Italiana, URI, poi Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, EIAR, Radio Audizioni Italia, RAI e infine Radiotelevisione Italiana)[343]. Solo con la citata legge 6 agosto 1990, n. 223[344] si aprirono le strade verso un dichiarato pluralismo dell’informazione[345], favorevole alla concessione della radiodiffusione sonora e televisiva a soggetti privati[346].
Per quanto riguarda la disciplina della diffamazione commessa per mezzo dello strumento radiotelevisivo, secondo una parte della dottrina la disciplina ante legge Mammì, tale reato veniva configurato esclusivamente a titolo di diffamazione semplice[347].
Una diverso orientamento sosteneva, invece, l’applicazione dell’aggravante di cui al terzo comma dell’articolo 595 c.p., forzando l’interpretazione del testo letterale, considerando cioè la radio e la televisione come mezzo di pubblicità[348].
Era, invece, pacifica in dottrina la non applicabilità a tali mass media dell’aggravante speciale prevista all’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47[349], in primo luogo perché la radio e la televisione non rientrano nella definizione di stampa e stampati prevista all’articolo 1 della citata legge[350] e inoltre per il divieto di interpretazione analogica in malam partem delle norme penali in base all’articolo 25 Cost.[351].
Si veniva così a profilare una palese disparità di trattamento tra condotte sostanzialmente analoghe e rette dalla medesima ratio, venendo il messaggio diffamatorio scritto o stampato assoggettato a un regime sanzionatorio decisamente più gravoso rispetto a quello parlato, al quale, inoltre, non potevano essere applicati neppure gli articoli 9 e 12 della legge stampa[352], né l’articolo 57 c.p. sulla responsabilità del direttore responsabile.
La Corte Costituzionale, a più riprese investita di tale questione, ha sempre dichiarato infondata l’illegittimità degli articolo 9, 12 e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 e dell’articolo 57 c.p. in riferimento all’articolo 3 Cost., negando l’irrazionalità del differente regime sanzionatorio sulla base di una asserita maggior pericolosità della stampa rispetto al sistema radiotelevisivo e sostenendo che solo il legislatore sarebbe potuto intervenire per risistemare la materia[353].
Un primo provvedimento fu preso dal Parlamento con la legge 14 aprile 1975, n. 103 (Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva), il cui articolo 31 estende la disciplina di prevista da alcuni articoli della legge stampa, tra cui l’applicazione dell’aggravante dell’articolo 13, anche ai reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni radiofoniche o televisive effettuate via cavo. Tale regime, però, risulta implicitamente abrogato dall’articolo 30 della legge 6 agosto 1990, n. 223 che ha risistemato il sistema dei reati commessi tramite le trasmissioni radio-televisive.
1.2. La nuova disciplina in materia di diffamazione della legge Mammì
La svolta in materia di diffamazione a mezzo di radio e televisione è stata impressa, come detto, dalla legge 6 agosto 1990, n. 223, la quale, all’articolo 30[354], si occupa delle disposizioni penali. Tale norma, però, più che risolvere il problema di irrazionale diseguaglianza di trattamento tra due situazioni accumunabili, ha creato un diverso assetto normativo, caratterizzato da marcata illogicità e incongruenza, mancando così l’obiettivo di realizzare una complessiva razionalizzazione della disciplina della diffamazione radio televisiva[355].
Analizzando il testo dell’articolo 30, si può subito notare come possono essere distinti i primi cinque commi, che disciplinano i reati che possono essere commessi col mezzo della radio o della televisione, dall’ultimo, che individua le violazioni formali della disciplina del sistema radiotelevisivo, non interessanti in questa sede.
Il primo comma sanziona le trasmissioni radiofoniche o televisive aventi carattere di oscenità con la pena prevista dall’articolo 528, comma 1 c.p. (pubblicazioni e spettacoli osceni), ossia la reclusione da tre mesi a tre anni e la multa non inferiore a euro 103, mentre il secondo comma dispone che si applicano alle trasmissioni radiotelevisive le disposizioni di cui agli articoli 14 (pubblicazioni destinate all’infanzia e all’adolescenza) e 15 (pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante) della legge 8 febbraio 1948, n. 47[356]. I soggetti attivi di queste fattispecie sono identificati nel concessionario privato o pubblico e nella persona da questi delegata al controllo della trasmissione.
Il terzo comma, simile nella formulazione all’articolo 57 c.p., introduce il reato di omesso controllo sul contenuto delle trasmissioni oscene e/o pericolose per l’infanzia a capo del concessionario o della persona da lui delegata che, per colpa, ometta di esercitare appunto il controllo diretto a evitare la commissione di reati di cui ai commi precedenti. Anche in questo caso, come per l’articolo 57 c.p., la pena prevista è quella stabilita per il reato, diminuita in misura non eccedente un terzo. Permane, in questa situazione, un’ingiustificata discrepanza rispetto alla stampa, restando esclusi dal regime di responsabilità tutti i reati non compresi ai primi due commi dell’articolo 30, compresa la diffamazione, dato il divieto di interpretazione in malam partem delle norme penali.
Più interessante è il quarto comma, che estende l’aggravante speciale di cui all’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 ai casi di reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni radiofoniche o televisive e consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato. Tale disposizione, però, applica il regime sanzionatorio equiparato a quello della stampa non all’autore della dichiarazione diffamatoria, bensì ai soggetti di cui al primo comma e cioè al concessionario privato o pubblico e alla persona delegata al controllo della trasmissione. L’autore immediato della diffamazione resta così, inspiegabilmente, assoggettato al regime della diffamazione semplice, come si desume dalla lettera della legge e come conferma la dottrina[357].
Una sentenza della Corte di Cassazione ha, però, sostenuto che tale norma debba essere interpretata estensivamente, secondo la ratio legis, e applicata a tutti i soggetti responsabili della diffamazione, compreso l’autore materiale di essa[358]. Tale pronuncia sembra essere, tuttavia, in palese contrasto con l’articolo 25 Cost., venendo a configurare un’interpretazione analogica in malam partem di una legge penale.
La giurisprudenza più recente ha, infatti, rilevato tale contrasto e stabilito che gli unici soggetti responsabili a norma del quarto comma dell’articolo 30 sono quelli indicati al primo comma e che, per il divieto di interpretazione analogica, sono esclusi da tale responsabilità sia l’autore della dichiarazione diffamatoria, sia il direttore della trasmissione[359].
L’ambito di applicazione del quarto comma dell’articolo 30 risulta, in questo modo, estremamente circoscritto, in quanto la circostanza in base alla quale, per la condotta di diffamazione realizzata da altri, possa essere chiamato a rispondere il concessionario o il soggetto da costui delegato contrasta col principio di personalità della responsabilità penale. L’unica possibilità sarebbe l’interpretazione in base alla quale il legislatore abbia voluto attribuire a questi soggetti una responsabilità oggettiva per fatto altrui, eventualità da escludere però per il contrasto con l’articolo 27 Cost.[360].
1.3. Le particolarità del sistema radiotelevisivo e le specifiche questioni penalistiche
Data la sua differente natura, il mezzo radiotelevisivo si pone con caratteri a volte differenti rispetto all’informazione stampata. Esso, infatti, può avere un maggiore impatto verso il pubblico per la caratteristica di mezzo che aggredisce i radioascoltatori o i telespettatori nella loro sfera domestica con un’immediatezza e una forza di suggestione di cui sono privi gli altri mezzi di comunicazione[361].
Per questi motivi, al giornalista televisivo è richiesta una maggiore responsabilità professionale, che deve manifestarsi in una più scrupolosa prudenza nella trasmissione delle notizie, in special modo quando queste possano essere idonee a ledere i diritti di terzi[362]. Dovrà dunque essere posta maggiore attenzione alla valutazione della scriminate della verità della notizia, richiedendosi un grado più elevato di prudenza, che deve estrinsecarsi nell’accertare con ogni mezzo a disposizione l’assoluta verità dell’informazione[363].
Un altro aspetto che si può presentare esclusivamente con riguardo alla diffusione radiofonica o televisiva è quello concernente la diretta delle trasmissioni. La giurisprudenza ha sempre escluso in tali casi la responsabilità in capo al concessionario o al soggetto da questi delegato al controllo della trasmissione, in quanto l’esercizio di tale dovere di vigilanza non può essere materialmente esercitato[364]. La circostanza che una trasmissione vada in onda in diretta, non è però sufficiente a escludere la responsabilità del concessionario o del delegato quando il conduttore o un ospite invitato siano noti quali soggetti usi all’utilizzo di espressioni diffamatorie nei confronti di terzi, per le quali siano già state pronunciate condanne, o siano aperti procedimenti, per il reato di cui all’articolo 595 c.p.[365].
Bisognerà perciò richiedere ai responsabili del programma (conduttore e direttore responsabile), per evitare possibili abusi, l’uso di idonei accorgimenti, quali l’identificazione dei partecipanti e degli intervenienti alla trasmissione, la preventiva individuazione degli argomenti che si intendono affrontare, la disattivazione dell’audio o del collegamento nel caso di frasi sconvenienti od offensive. Quando vengano poste in essere tali precauzioni e, nonostante ciò, il fatto lesivo si sia verificato ugualmente, dovrà essere esclusa la responsabilità del concessionario o del delegato, mentre, se non si dimostrerà l’uso di tutte le misure utili a evitare il fatto, vi sarà una corresponsabilità nell’eventuale diffamazione[366].
Non vi è responsabilità né del conduttore, né dei soggetti di cui al primo comma dell’articolo 30, nel caso in cui le notizie di cronaca, costituite dalla pubblicazione di articoli di stampa, vengano commentate nel corso di una trasmissione televisiva e il commentatore abbia assunto una posizione di terzo osservatore senza concorrere attivamente alla formazione del fatto della notizia o alla determinazione del contenuto[367].
Queste ultime considerazioni non valgono, invece, nel caso di trasmissione andate in onda in differita: essendo questi programmi pre-registrati, il controllo da parte del concessionario o del delegato è materialmente possibile, atteggiandosi così a dovere di vigilanza, permanendo quindi la loro responsabilità[368].
Non è ancora stato affrontato in giurisprudenza il problema dell’individuazione del soggetto responsabile di notizie o commenti diffamatori nel caso in cui, per esempio durante un telegiornale, il testo sia stato redatto da un giornalista diverso da quello deputato a leggerlo. In dottrina si è posto il quesito se attribuire la qualifica di autore della diffamazione a chi materialmente ha composto il messaggio lesivo o a chi, spesso in diretta e senza preventivamente conoscerne il contenuto, lo ha diffuso. Una soluzione adottata è quella di attribuire la responsabilità a chi redige il testo offensivo, salvo il caso in cui il giornalista che si espone in video abbia il compito e la possibilità di verificare preventivamente il contenuto dei pezzi elaborati da un diverso giornalista della redazione e che gli spetterà leggere[369].
Il concessionario e il delegato sono considerati responsabili del delitto di diffamazione dalla dottrina[370] quando tale fattispecie è posta in essere da un inserzionista pubblicitario attraverso degli spot trasmessi in radio o in televisione. A carico di tali soggetti vi è, infatti, un dovere sociale di ordinaria diligenza che consiste nel visionare preventivamente la pubblicità mandata in onda dalla propria emittente[371].
- 2. Internet
Negli ultimi anni, la sempre maggior diffusione di internet ha portato alla trasmissione e allo scambio di dati e informazioni attraverso l’utilizzo di reti telematiche in grado di connettere una pluralità sempre maggiore e indeterminata di individui. Tale fenomeno ha ormai raggiunto il livello di massa, trasformando le abitudini di vita delle persone facendo nascere nuovi e diversi interessi ed esigenze.
Il mondo dell’informazione ha subito gli effetti di questo cambiamento, aprendo vie prima sconosciute, in cui si può realizzare una circolazione e comunicazione di dati di qualsiasi genere, a ogni distanza e alla massima velocità.
Inoltre l’informazione on-line, a differenza di tutti gli altri mezzi di comunicazione offre a tutta la sua utenza una doppia possibilità di porsi come soggetto attivo o passivo della comunicazione. Internet, infatti, funge contemporaneamente sia da mezzo di pubblicazione, che da mezzo di comunicazione. Quindi, da un lato la rete può essere utilizzata per divulgare informazioni a terzi, dall’altro viene utilizzata dagli stessi utenti per attingere alle notizie.
E’ necessario analizzare brevemente i diversi mezzi coi quali è possibile manifestare il proprio pensiero attraverso la rete.
Il sito web è un insieme di pagine web correlate, cioè fogli virtuali nei quali vengono rese disponibili all’utente finale le informazioni, i dati, le foto, i video o altri tipi di contenuti su internet.
La e-mail (abbreviazione dell’inglese electronic mail) o posta elettronica in italiano, è un servizio grazie al quale ogni utente può inviare o ricevere dei messaggi ed è la vera e propria controparte digitale ed elettronica della posta ordinaria e cartacea, ma, a differenza di quest’ultima, il ritardo con cui il messaggio arriva dal mittente al destinatario è normalmente di pochi secondi o minuti.
La chat (dall’inglese to chat, chiacchierare) è un sistema di comunicazione interattivo che consente a due o più utenti di dialogare e discutere contemporaneamente tra loro mediante messaggi pressoché istantanei.
I newsgroup sono gruppo di informazione che hanno il fine di permettere agli iscritti di discutere su particolari argomenti individuati all’interno del gruppo (aree tematiche o topic). Si atteggiano così a una sorta di forum in cui tutti gli iscritti potranno inviare comunicazioni leggibili dagli altri iscritti e anche dai visitatori (che, se non iscritti, non potranno, però, inviare messaggi).
Il blog (dall’inglese web-log, giornale di bordo), infine, è una sorta di diario personale on-line in cui l’autore pubblica, più o meno periodicamente, notizie, informazioni, opinioni personali etc. e che consente ai visitatori di commentare o integrare i messaggi.
E’ facile osservare come la pubblicazione di un’informazione attraverso uno di questi mezzi rappresenti la forma più efficace, moderna e potenzialmente insidiosa di diffondere una notizia, per la possibilità di essere recepita non solo da colui al quale è specificatamente diretta, ma anche da un numero indefinito di soggetti. Questo anche grazie ai motori di ricerca, siti web funzionalmente diretti a consentire l’individuazione di altri siti, che realizzano così una moltiplicazione della diffusione di ogni informazione espressa sulla rete.
Sul punto si è espressa anche la Corte di Cassazione che ha evidenziato come la comunicazione di un soggetto che attraverso internet abbia creato o utilizzato uno spazio web deve intendersi effettuata potenzialmente erga omnes, sia pure nel ristretto ambito di tutti coloro che abbiano gli strumenti e la capacità tecnica di connettersi a esso[372]. Ma se già nel 2001, il numero di persone aventi a disposizione una connessione non poteva certo dirsi ristretto, a maggior ragione non si può ora, dato che il fenomeno ha raggiunto dimensioni globali.
A fronte di questo rapidissimo sviluppo tecnologico, il diritto non è ancora riuscito a intervenire in maniera soddisfacente, come nel caso della diffamazione, la cui insufficiente tutela, ancorata alla lettera di una norma risalente al 1930, rende necessario un intervento del legislatore per prevedere espressamente anche queste nuove forme nelle quali può presentarsi tale reato, senza dover ricorrere a interpretazioni forzate di una disciplina creata in e per una differente società[373] e in modo da rispettare pienamente il principio secondo cui tutto ciò che è illegale off-line lo è anche on-line, per cui un reato non cessa di essere tale se commesso su Internet e dunque la rete non è uno spazio libero dal diritto[374].
2.1. La diffamazione a mezzo internet
Non vi è alcun dubbio in dottrina che Internet, in quanto mezzo di comunicazione di massa, possa rientrare a pieno titolo nella tutela della libera manifestazione del pensiero di cui all’articolo 21 Cost.[375].
Nessuna incertezza nemmeno sul fatto che col mezzo di internet si possano commettere reati di manifestazione del pensiero, quali diffamazione, vilipendio, istigazioni, etc.; la stessa Corte di Cassazione ha stabilito che è addirittura intuitiva questa asserzione, non essendo possibile ritenere il contrario[376].
Nel web, però, la presenza fisica o virtuale della persona offesa sfuma fino a perdere importanza, per lasciare il posto a una comunità indefinita e vasta che è indistintamente messa nelle condizioni di ricevere la notizia diffamatoria, rendendo di non semplice risoluzione il problema dell’individuazione della fattispecie tra ingiuria e diffamazione[377].
La dottrina ha così individuato come discrimen la direzione dello scritto diffamatorio: esclusivamente nel caso in cui esso sia diretto a una o più persone determinate potrà configurarsi l’ingiuria; al contrario, i messaggi non specificamente indirizzati a un soggetto determinato (come per esempio quelli pubblicati in una pagina web) non dovrebbero poter in alcun modo integrare il reato d’ingiuria, nemmeno nell’ipotesi in cui pervengano anche alla lettura del soggetto offeso, costituendo così più propriamente il delitto di diffamazione[378].
Altra dottrina, invece, sostiene che, nel caso in cui la comunicazione telematica pervenga comunque anche al destinatario individualmente determinato, oppure, se diretta a più persone, venga fra queste indirizzata anche alla parte offesa, dovrebbe considerarsi integrato il reato di ingiuria, eventualmente in concorso con quello di diffamazione[379].
2.1.1. L’aggravante del mezzo stampa
Esclusa l’applicazione dell’aggravante a mezzo stampa per l’impossibilità di far rientrare quanto pubblicato su internet nella definizione di stampa e di stampato di cui all’articolo 1 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, si è aperto uno spiraglio per l’equiparazione agli altri mezzi di comunicazione con la legge 7 marzo 2001, n. 62. Pur essendo un provvedimento normativo a tutela del diritto d’autore e quindi concernenti scopi diversi da quelli trattati in questa sede, l’articolo 1 fornisce una definizione di prodotto editoriale che si estende sino a ricomprendere qualsiasi prodotto su supporto cartaceo o su supporto informatico destinato a pubblicazione o diffusione con ogni mezzo anche elettronico, disponendo altresì che a esso si applichino le disposizioni di cui all’articolo 2 della legge stampa (che prescrive il dovere di talune indicazioni obbligatorie). Inoltre, il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata, costituente elemento identificativo del prodotto, viene assoggettato, altresì, agli obblighi di registrazione previsti dall’articolo 5 della medesima legge.
Nonostante una minoritaria dottrina che ha ritenuto che la norma, la quale accomuna in un sistema unitario la carta stampata e i nuovi media, abbia valore generale, così da poter affermare l’assoluta equiparabilità di un sito internet a una pubblicazione a stampa, la tesi maggioritaria, confermata anche da una sentenza della Corte di Cassazione[380], in linea con le indiscutibili esigenze di differenziare internet dalla stampa tradizionale, è incline a considerare il regime sopra citato prescritto solo al limitato fine di usufruire delle agevolazioni previste per legge[381].
L’orientamento giurisprudenziale ormai dominante[382], ritiene che, nel caso di diffamazione commessa a mezzo internet, l’eccezionale diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio lesivo, oltre alla persistenza di questo[383], renda il soggetto attivo meritevole di un trattamento penale più severo, potendosi configurare l’aggravante di cui al comma 3 dell’articolo 595 c.p. dell’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.
2.1.2. La consumazione
Nel caso di diffamazione a mezzo internet bisogna tenere ben presente la netta e fondamentale differenza che si ha tra la condotta, la quale si concretizza nel mero inserimento in rete da parte del soggetto agente di scritti o immagini lesive, e l’evento, che consiste nella percezione del messaggio da parte di almeno due soggetti.
Così, la sola immissione di un messaggio diffamatorio su un sito web, purché attivo e visitabile, anche qualora non ci sia la prova dell’effettiva percezione dell’addebito denigratorio da parte di terzi, può quantomeno configurare l’ipotesi del tentativo di diffamazione, in quanto condotta idonea e volta in modo non equivoco a diffondere messaggi lesivi della reputazione[384]. Trattandosi di reato di evento, infatti, non è idonea alla configurazione del reato consumato la sola immissione della notizia in rete, occorrendo la prova dell’effettiva diffusione all’esterno e che quindi vi siano stati visitatori del sito (o della chat, o del blog, o iscritti alla newsgroup); il momento preciso della consumazione sarà dunque quello nel quale il collegamento dei terzi verrà attivato[385].
E’ configurabile il solo tentativo, invece, nel caso in cui non si verifica l’evento perché nessuno ha visitato il sito e il messaggio viene cancellato prima della lettura[386].
Può anche integrarsi l’ipotesi di reato impossibile di cui al comma 2 dell’articolo 49 c.p. (che si ha quando per l’inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile il verificarsi dell’evento dannoso o pericoloso) nel caso in cui l’agente faccia uso di uno strumento difettoso, che solo apparentemente gli concede l’accesso a uno spazio web, mentre nella realtà il messaggio non è mai stato immesso nella rete[387].
Non è possibile presumere la conoscenza del messaggio da parte di terzi, a meno che non si tratti di siti abitualmente visitati da un grande numero di utenti[388]. Per configurare la consumazione della diffamazione è sufficiente anche la visita di soli due utenti nel sito e non è richiesta la prova che i visitatori abbiano letto la specifica notizia, assumendo rilevanza il mero accesso al sito che ha divulgato la notizia, così come per la diffamazione a mezzo stampa non si richiede la prova che il lettore abbia effettivamente letto un determinato articolo.
Per provare la visita del sito da parte di almeno due utenti è sufficiente consultare il server (componente informatica che fornisce servizi ad altre componenti, dette client, attraverso una rete) del sito, che può accertare il numero di visitatori.
2.1.3. I limiti
Un profilo di particolare rilievo assume la possibilità di applicazione della scriminante del diritto di cronaca, critica e satira nel caso di diffamazione a mezzo internet da parte di un soggetto privato. Per quanto riguarda i limiti in linea generale si rinvia naturalmente a quanto trattato nel Capitolo II.
Una parte della dottrina da un lato riconosce a favore di tutti i soggetti, sia giornalisti che non, il diritto di critica, in quanto tutelato costituzionalmente dall’articolo 21 Cost., ma ritiene che il diritto di cronaca spetti esclusivamente al giornalista o pubblicista o comunque a un soggetto che, scrivendo sulla carta stampata, sia controllato da un direttore[389].
Diversa dottrina e la giurisprudenza, però, non potendo ravvisarsi valide motivazioni per riconoscere l’esimente del diritto di cronaca esclusivamente a una determinata categoria professionale, hanno ritenuto che anche tale diritto può costituire una scriminante per il reato di diffamazione a mezzo internet[390].
2.2. La diffamazione per lesione del “diritto all’oblio””
La giurisprudenza, dato il continuo evolversi della coscienza sociale, ha riconosciuto, all’interno della sfera di tutela della persona, accanto al diritto alla riservatezza e all’identità personale, nuovi diritti soggettivi. Uno di questi è particolarmente soggetto a essere gravemente aggredito tramite internet: il “diritto all’oblio”[391].
Tale diritto viene considerato come rientrante tra i diritti della personalità tutelati dall’articolo 2 Cost. ed è definito come il diritto, spettante a chi ha commesso in passato gravi fatti, di essere dimenticato dall’opinione pubblica per avvenimenti ormai datati, evitando che la ripubblicazione delle notizie di cui sia stato protagonista possa accendere nuovamente i riflettori sulla sua persona, condizionandone negativamente l’esistenza[392]. L’interesse di questi soggetti, siano essi persone fisiche o persone giuridiche alle quali è riconosciuta una reputazione morale e commerciale, consiste nell’evitare di rimanere esposti a tempo indeterminato alla possibilità di subite lesioni al proprio onore, in conseguenza della reiterazione della pubblicazione di una notizia, ritenuta legittima in passato, in quanto scriminata dal diritto di cronaca, critica o satira.
Va dunque compiuto un bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e all’oblio del soggetto passivo e l’interesse pubblico alla riproposizione della notizia, che sussiste, rispetto a fatti e avvenimenti datati, quando la nuova diffusione venga giustificata da eventi particolari, tali da rendere nuovamente attuale la notizia[393].
Pare del tutto evidente come tale diritto venga facilmente compromesso dal web. Tutte le informazioni, infatti, anche se datate e non più attuali, sono a disposizione degli utenti e, tramite i motori di ricerca, non è affatto complicato scovarle. Particolare importanza riveste la permanenza sulla rete di notizie superate da altre, che però non siano state immesse in internet.
Pur in assenza di una normativa nazionale o internazionale che preveda limiti alla permanenza delle notizie sul web o almeno l’obbligo di cancellazione o aggiornamento (trattasi questa di una grave lacuna che incide sui diritti soggettivi del cittadino e in particolare sui diritti della personalità garantiti dall’articolo 2 Cost.), la dottrina, in assenza di giurisprudenza sulla materia, ritiene che sussista il diritto soggettivo all’aggiornamento o all’eliminazione delle informazioni lesive dopo un determinato arco temporale, potendosi altrimenti configurare, a capo del responsabile del motore di ricerca che abbia trovato la notizia e del responsabile del sito che l’abbia pubblicata, il reato di diffamazione[394].
2.3. La diffamazione nelle mail, nei newsgroup e nelle chat
Verranno ora esaminate alcune caratteristiche particolari che possono riscontrarsi nell’analisi di alcune forme di comunicazione nelle quali si può esplicare il mezzo internet.
Il reato di diffamazione può essere consumato anche tramite la posta elettronica (e anche attraverso la diffusione di messaggi in una mailing list, sistema organizzato per la partecipazione di più persone in una discussione tramite e mail), trattandosi di reato di evento che si perfezionerà nel momento in cui i destinatari del messaggio (almeno due) verranno a conoscenza dell’offesa alla reputazione del soggetto[395].
La posta elettronica è tutelata, così come ogni altra forma di posta, dal segreto della corrispondenza sancito dall’articolo 15 Cost., la cui violazione è penalmente sanzionata dall’articolo 616 c.p., in base all’estensione della nozione di corrispondenza introdotta dall’articolo 5 della legge 23 dicembre 1993, n. 547. Così per corrispondenza s’intende quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza. In contrasto con il principio della segretezza della corrispondenza, si è pronunciato il Tribunale di Milano, che ha sostenuto che non integra la violazione di cui all’articolo 616 c.p. la condotta del datore di lavoro che controlla la e-mail del lavoratore a sua insaputa, poiché quest’ultimo non è titolare di un diritto all’utilizzo esclusivo della posta elettronica aziendale e quindi si espone al rischio che altri lavoratori, così come il datore di lavoro, possano lecitamente entrare nella casella postale e leggere i messaggi[396].
La Corte di Cassazione ha anche affermato che non sussiste la responsabilità nemmeno del gestore di un punto internet (“internet point”) per non aver impedito la diffusione di un addebito diffamatorio tramite posta elettronica; il gestore, infatti, non solo è del tutto privo di alcun potere di controllo sul contenuto delle e mail inviate, ma gli è anche inibito ex articolo ex art. 617 quater c.p. che vieta l’intercettazione fraudolenta di sistemi informatici e telematici. L’unico obbligo che è stabilito a capo del gestore è quello di identificare gli utenti che facciano uso del terminale ai soli fini della prova dell’utilizzazione e non per impedire l’eventuale reato[397].
Sorgono poi delicati problemi nell’individuazione della responsabilità in caso di comunicazione diffamatoria inviata tramite newsgroup, in quanto questa potrebbe contenere anche centinaia di iscritti con un potenziale diffusivo simile a quello di un giornale locale.
Dottrina e giurisprudenza hanno individuato un’autonoma responsabilità per il contenuto dei messaggi inseriti nella lista a capo del supervisore o del moderatore, nel caso in cui abbia il compito di controllare i testi e le pubblicazioni, a nulla rilevando che non abbia contribuito alla loro elaborazione; la posizione che emerge è così simile a quella del direttore responsabile, ma non è completamente assimilabile, non sussistendo alcun rapporto di lavoro tra gli utenti del gruppo e il supervisore, non essendo così configurabile il reato di omesso controllo ex articolo 57 c.p., né la diffamazione a mezzo stampa, ma esclusivamente la fattispecie aggravata dalla commissione attraverso altro mezzo di pubblicità[398].
Se invece il newsgroup si limita a mettere a disposizione degli utenti uno spazio virtuale, senza controllo e vigilanza sul contenuto dei messaggi, non potrà essere attribuita nessuna responsabilità a capo del moderatore o responsabile del newsgroup. In questo modo difficilmente verranno individuati, non essendoci alcun obbligo, un moderatore ufficiale responsabile del controllo e pare necessaria una normativa che introduca un filtro o vaglio preventivo e obbligatorio sul contenuto dei messaggi informatici per evitare una sostanziale impunità.
Così come per la diffamazione tramite una notizia pubblicata su un sito internet, l’invio di un messaggio denigratorio al newsgroup è sufficiente per integrare la fattispecie del delitto tentato, mentre sarà necessaria la prova dell’effettiva lettura di almeno due iscritti o visitatori per poter configurarsi la fattispecie consumata.
La diffamazione può essere realizzata anche attraverso la chat. La più grossa difficoltà in questo campo, si riscontra nell’individuazione del soggetto attivo, in quanto protetto dall’anonimato datogli dallo pseudonimo (o nickname) che utilizza, e non è certo che si tratti del titolare del numero di protocollo individuato dal server, potendo essere un’altra persona che ha a disposizione il computer[399].
2.4. La responsabilità dell’internet provider
L’internet server provider è un soggetto che fornisce agli utenti i servizi internet. Bisogna esaminare la natura della responsabilità del provider e identificare le norme applicabili in caso di violazioni commesse dagli utenti del suo server.
I criteri d’individuazione della responsabilità del provider possono essere teoricamente ricondotti allo schema dell’autoria, a quello della responsabilità concorsuale o a quello dell’omissione di controlli finalizzati all’impedimento di eventi illeciti[400].
I casi in cui il provider può essere considerato quale autore del reato, sono limitati a situazioni marginali, nei quali gli sia attribuibile la paternità dei dati o quantomeno la loro riconducibilità, in quanto agisca anche come moderatore del newsgroup e debba provvedere al controllo dei messaggi.
La sua figura potrà, inoltre, essere inquadrata nella categoria della responsabilità concorsuale, qualora sia dimostrabile che abbia consapevolmente fornito l’accesso a dati illeciti da altri immessi in rete. In questa situazione non sarà, però, agevole dimostrare il dolo e la consapevolezza del provider[401].
Bisogna quindi verificare se il provider sia tenuto a controllare i contenuti immessi in rete attraverso i servizi di accesso internet e se tale omesso controllo possa costituire una forma di responsabilità.
Andrà preliminarmente escluso ogni tipo di controllo sul contenuto della posta elettronica, essendo questa tutelata, come già considerato in precedenza, dal segreto della corrispondenza di cui all’articolo 15 Cost.[402].
La questione deve invece essere posta con riguardo alle altre forme di comunicazione, nel caso di diffusione di messaggi diffamatori, pubblicazioni oscene etc..
Un primo orientamento giurisprudenziale riteneva il provider corresponsabile dell’illecito commesso sulla base della teoria della culpa in vigilando, che in questo caso si atteggia alla colpa derivante dal mancato adempimento dell’obbligo di monitorare il materiale inviato dagli utenti sul proprio server. Questa teoria assimilava il mezzo internet a un organo di stampa e il provider a un editore, sostenendo così un obbligo di controllo sui siti internet da questi gestiti[403].
Tale orientamento è stato però fortemente contestato dalla dottrina che ha rilevato come questo dilatasse a dismisura la responsabilità del provider ed equiparasse, con un’interpretazione eccessivamente estensiva, internet a un organo di stampa, andando a infrangersi inesorabilmente contro il principio di legalità, che impone l’esclusione della suddetta assimilazione, non potendo lo strumento internet essere ricompreso nella definizione di stampa di cui all’articolo 1 della legge 8 febbraio 1948, n.47[404]. La dottrina credeva si dovesse distinguere il caso in cui venisse fornito un servizio di housing (consistente nella concessione in locazione ad un utente di un intero server connesso a internet), nel quale non può essere attribuita alcuna responsabilità al provider che svolge un servizio di mero vettore di informazioni, da quello in cui venisse fornito un servizio di hosting (consistente nell’allocare su un server web le pagine di un sito, rendendolo così accessibile dalla rete Internet), in cui, avendo il provider attuato una seppur minima forma di partecipazione alla pubblicazione sulla rete del materiale lesivo, possa essergli attribuita una responsabilità[405].
In questo senso si è espressa anche la successiva giurisprudenza[406], ma tale dibattito risulta ora superato dalla nuova normativa in materia.
Il decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70 (in attuazione della direttiva 2000/31/CE) stabilisce, in primo luogo, all’articolo 17 che il provider non è tenuto a un generale obbligo di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. Sono inoltre distinti tre casi in cui può sussistere la responsabilità. Il primo caso è previsto dall’articolo 14 che stabilisce che nel caso di prestazione consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, o nel fornire un accesso alla rete di comunicazione, il provider non è responsabile delle informazioni trasmesse sempre che non dia origine alla trasmissione, non selezioni il destinatario della trasmissione e non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse.
Il secondo caso previsto è quello di cui all’articolo 15 che stabilisce che il provider non è responsabile della memorizzazione automatica, intermedia e temporanea delle informazioni effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari purché non modifichi le informazioni, si conformi alle condizioni di accesso alle informazioni, si conformi alle norme di aggiornamento delle informazioni, indicate in un modo ampiamente riconosciuto e utilizzato dalle imprese del settore, non interferisca con l’uso lecito di tecnologia ampiamente riconosciuta e utilizzata nel settore per ottenere dati sull’impiego delle informazioni e agisca prontamente per rimuovere le informazioni che ha memorizzato, o per disabilitare l’accesso, non appena venga effettivamente a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano inizialmente sulla rete o che l’accesso alle informazioni è stato disabilitato oppure che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa ne ha disposto la rimozione o la disabilitazione.
L’ultima ipotesi è quella prevista dall’articolo 16, in base al quale al provider non può essere attribuita la responsabilità delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione e che, non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.
A prescindere dalle ipotesi sopracitate, nel caso in cui il provider venga a conoscenza di presunte attività o messaggi illeciti riguardanti un utente del suo servizio, esso ha l’obbligo d’informare immediatamente l’autorità giudiziaria o amministrativa di vigilanza e a fornire a tali autorità quanto sia necessario a individuare l’autore della condotta illecita[407].
Ha suscitato però scalpore la chiusura delle indagini della Procura di Milano nei confronti di quattro dirigenti del motore di ricerca Google, accusati di concorso in diffamazione nei confronti di un ragazzo disabile che, in una scuola di Torino, è stato insultato, offeso e ripreso in un video girato dai compagni che lo hanno preso di mira e finito in rete grazie al servizio Google Video. Nella motivazione, comparsa nell’avviso di conclusione delle indagini, si è evidenziato come l’immissione per la successiva diffusione a mezzo internet, attraverso le pagine di Google Video Italia e senza alcun controllo preventivo sul suo contenuto del video in esame, offenderebbe la reputazione dell’Associazione Vividown nonché del ragazzo protagonista e vittima del video e verrebbero ledesi i loro diritti e le loro libertà fondamentali[408]. Tale condotta omissiva non sembra, però, rientrare nella disciplina della responsabilità prevista dal decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70.
[340] Definizione desumibile dall’articolo 1 della Direttiva CEE 3/10/1989, n. 552 sull’esercizio delle attività televisive e dall’articolo 2 della Convenzione europea sulla televisione transfrontaliera del Consiglio d’Europa, ratificata dall’Italia con la legge 5 ottobre 1991, n. 327.
[341] Chindemi, op. cit., p. 214.
[342] R. d. 14 dicembre 1924, n. 2191; l. 1350/1929.
[343] Tonoletti, Principi costituzionali dell’attività radiotelevisiva, Torino, 2003, p. 216.
[344] Bisogna solo brevemente ricordare che successivamente è stata emanata la legge 3 maggio 2004, n. 112 (c.d. legge Gasparri) per il riordino del sistema televisivo, che punta a una privatizzazione della RAI e una serie di norme che hanno il fine di evitare concentrazioni monopolistiche; inoltre, si rammenda il Testo Unico sulla radio-televisione (d. lgs. 31 luglio 2005, n.177), oggi normativa di riferimento in materia.
[345] Art. 1, co. 2, l. 223/1990.
[346] Art. 16, co. 1, l. 223/1990.
[347] Peron, La diffamazione tramite mass-media, Padova, 2006, p. 349; Polvani, op. cit., p. 79.
[348] Bartolo, Commento all’art. 30, l. 06.08.1990, 223, in Le nuove leggi civili commentate, 1991, p. 893.
[349] Si veda Capitolo I, 1.7.
[350] Si veda Capitolo I, 1.6.
[351] Peron, op. cit., p. 350; Bartolo, op. cit., p. 893.
[352] Art. 9: “Pubblicazione obbligatoria di sentenze – Nel pronunciare condanne per reato commesso mediante pubblicazione in un periodico, il giudice ordina in ogni caso la pubblicazione della sentenza, integralmente o per estratto, nel periodico stesso. Il direttore responsabile è tenuto a eseguire gratuitamente la pubblicazione a norma dell’art. 615, primo comma, del Codice di procedura penale”; art. 12: “Riparazione pecuniaria – Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 del Codice penale, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato”.
[353] C. Cost, 22/10/1982, n. 168, in Foro.it, 1982, p. 2702; C. Cost., 10/03/1993, n. 53, in Foro.it, 1983, p. 525; C. Cost., 11/12/1985, n. 330, in Foro.it, 1986, p. 1732.
[354] Art. 30, della l. 6 agosto 1990, n. 223: “Nel caso di trasmissioni radiofoniche o televisive che abbiano carattere di oscenità il concessionario privato o la concessionaria pubblica ovvero la persona da loro delegata al controllo della trasmissione è punito con le pene previste dal primo comma dell’articolo 528 del codice penale. Si applicano alle trasmissioni le disposizioni di cui agli articoli 14 e 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. Salva la responsabilità di cui ai commi 1 e 2 e fuori dei casi di concorso, i soggetti di cui al comma 1 che per colpa omettano di esercitare sul contenuto delle trasmissioni il controllo necessario ad impedire la commissione dei reati di cui ai commi 1 e 2 sono puniti, se nelle trasmissioni in oggetto è commesso un reato, con la pena stabilita per tale reato diminuita in misura non eccedente un terzo. Nel caso di reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, si applicano ai soggetti di cui al comma 1 le sanzioni previste dall’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. Per i reati di cui ai commi 1, 2 e 4 del presente articolo si applicano le disposizioni di cui all’articolo 21 della legge 8 febbraio 1948, numero 47. Per i reati di cui al comma 4 il foro competente è determinato dal luogo di residenza della persona offesa. Sono puniti con le pene stabilite dall’articolo 5-bis del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 giugno 1974, n. 216, e successive modificazioni, il titolare di concessione di cui all’articolo 16 o di concessione per servizio pubblico ovvero la persona dagli stessi delegata che violi le disposizioni di cui agli articoli 12, 13, 14, 17 e di cui al comma 2 dell’articolo 37 della presente legge. Le stesse pene si applicano agli amministratori della società titolare di concessione ai sensi dell’articolo 16 o di concessione per servizio pubblico o che comunque la controllano direttamente o indirettamente, che non trasmettano al Garante l’elenco dei propri soci.
[355] Peron, op. cit., p. 353; Bartolo, op. cit., p. 892; Polvani, op. cit., p. 80; Fioravanti, Televisione, Stampa e Editoria, in Digesto penale, Torino, 1999, XIV, p. 150.
[356] Si veda il paragrafo 2 del Capitolo I.
[357] Peron, op. cit., p. 354; Bartolo, op. cit., p. 900; Polvani, op. cit., p. 81.
[358] Cass. Pen., Sez. I, 13/12/1994, Costanzo, in Cass. pen., 1996, p. 1852.
[359] Cass. Pen., Sez. I, 26/02/1996, Ferrara, in Cass. pen., 1997, p. 1347; Cass. Pen., Sez. II, 23/04/2008, Matacena, CED 240687.
[360] Peron, op. cit., p. 355; Polvani, op. cit., p. 82.
[361] Cass. Civ., Sez. III, 4/02/1992, in Foro.it, 1992, p. 2128.
[362] Cass. Civ., Sez. III, 4/02/1992, in Foro.it, 1992, p. 2128.
[363] Cass. Civ., Sez. III, 13/01/2005, in Mass., p. 599.
[364] Trib. Roma, 5/04/1994, in Dir. inf., 1994, p. 1034; Trib. Monza, 19/09/1996, in Dir. inf., 1996, p. 331; App. Milano, 19/05/1998, in Dir. inf., 2000, p. 281.
[365] Trib. Brescia, 3/08/1998, in Danno e resp., 1999, p. 465.
[366] Trib. Barcellona Pozzo di Gotto, 6/03/1995, in Giur. mer., 1996, p. 302.
[367] Trib. Milano, 3/03/2003, in Riv. pen., 2004, p.876.
[368] Trib. Roma, 30/09/1995, in Dir. inf., 1996, p. 239.
[369] Peron, op. cit., p. 359; Fioravanti, op. cit., p. 170.
[370] Non sussistono precedenti giurisprudenziali sulla diffamazione radio-televisiva compiuta a mezzo spot pubblicitari.
[371] Chindemi, op. cit., p. 217.
[372] Cass. Pen., Sez. V, 27/12/2000, P. M. in proc. contro ignoti, in Cass. pen., 2001, p. 1832.
[373] Chindemi, op. cit., p. 165; Peron, op. cit., p. 373.
[374] Seminara, La responsabilità penale degli autori su internet, in Dir. inf., 1998, p. 745.
[375] Peron, op. cit., p. 376.
[376] Cass. Pen., Sez. V, 27/12/2000, P. M. in proc. contro ignoti, in Cass. pen., 2001, p. 1832.
[377] Scopinaro, Internet e delitti contro l’onore, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 641.
[378] Spagnoletti, Profili problematici del reato di diffamazione a mezzo internet, in Giur. merito, 2003, p. 1616.
[379] Picotti, Profili penali delle comunicazioni illecite via Internet, in Dir. inform., 1999, p. 283.
[380] Cass. Pen., Sez. V, 15/05/2008, L., in Guida al dir., 2008, p. 103.
[381] Spagnoletti, op. cit., p. 1616.
[382] Cass. Pen., Sez. V, 27/12/2000, P. M. in proc. contro ignoti, in Cass. pen., 2001, p. 1832; Cass. Pen., Sez. V, 1/07/2008, Alberti, CED 241182.
[383] Trib. Teramo, 11/12/1997, in Dir. inf., 1998, p. 370.
[384] Cass. Pen., Sez. V, 27/12/2000, P. M. in proc. contro ignoti, in Cass. pen., 2001, p. 1832; Trib. Teramo, 6/02/2002, in Giur. mer., 2003, p. 1476.
[385] Cass. Pen., Sez. V, 21/06/2006, Cicino, CED 234528; Cass. Pen., ord., 8/05/2002, in Foro.it, 2002, p. 1982; Trib. Bologna, 31/12/2002, in Dir. inf., 2003, p. 281; Trib. Teramo-Giulianova, 30/01/2002, in Guida dir., 2002, p.75.
[386] Cass. Pen., Sez. V, 17/11/2000, Dulberg, in Danno e resp., 2001, p. 602.
[387] Cass. Pen., Sez. V, 4/04/2008, Tardivo, CED 239832.
[388] Cass. Pen., Sez. V, 4/04/2008, Tardivo, in Cass. pen., 2009, 1545.
[389] Cassano, La diffamazione on line, in Ciberspazio e diritto, 2001, p. 165.
[390] Cass. Pen., Sez. V, 1/07/2008, Alberti, CED 241182; Chindemi, op. cit., p. 177.
[391] Trib. Roma, 15/05/1995, in Foro.it, 1998, p. 76.
[392] Chindemi, op. cit., p. 184.
[393] Ferri, Diritto all’informazione e diritto all’oblio, in. Riv. dir. civ., 1990, p. 801.
[394] Chindemi, op. cit., p. 187.
[395] Chindemi, op. cit., p. 191; Anolisei, op. cit., p. 169.
[396] Trib. Milano, 10/05/2002, in Foro.it, 2002, p. 385.
[397] Cass. Pen., Sez. V, 11/11/2008, Carrozza, CED 242960.
[398] Trib. Roma, 4/07/1998, in Arch. civ., 2000, p. 1252; Chindemi, op. cit., p. 192; Costanzo, I news-group al vaglio dell’Autorità giudiziaria, in Dir. inf., 1998, p. 806.
[399] Chindemi, op. cit., p. 195.
[400] Seminara, op. cit., p. 745.
[401] Seminara, op. cit., p. 745.
[402] Peron, op. cit., p. 391.
[403] Trib. Napoli, 8/08/1997, in Resp. civ., 1998, p. 176.
[404] Seminara, La pirateria su Internet e il diritto penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, p. 106.
[405] Peron, op. cit., p. 392; Franzoni, La responsabilità del provider, in AIDA, 1997, p. 248.
[406] Trib. Cuneo, 27/07/1997, in Giur. piemontese, 1997, p. 493; Trib. Roma, 4/07/1998, in Dir. inf., 1998, p .807.
[407] Art. 17, d. lgs 9 aprile 2003, n. 70.
[408] Scorza, Processo alla rete, Roma, 2008, p. 9.